Quando la maestra sentenzia

“Non abbiamo convocato tutti i genitori per i colloqui individuali, solo alcuni casi che ci sembravano particolari. E la Bubi è in effetti un caso particolare. Direi problematico.”

“Proble… cosa?!?!”

“Signora, si renderà conto anche lei che la bambina ha subito un grosso cambiamento ultimamente. E’ evidente che sta succedendo qualcosa in famiglia. Immagino che voi siate molto impegnati sul lavoro e questo sulla bambina si vede.”

“In che modo scusi?”

“E’ chiaro che alla bambina non sono imposte delle regole chiare a casa e quindi tende a non rispettarle nemmeno a scuola. A voi genitori chiediamo sempre un certo rigore, altrimenti il nostro lavoro in classe non serve a niente. La Bubi si vede che è abituata a fare un po’ ciò che vuole, senza alcun tipo di limitazione. E’ piuttosto evidente che uno o entrambi i genitori sono piuttosto lassisti per esempio sul mangiare e sul dormire. Mi dica la verità: la bambina non mangia verdure, vero? e dorme spesso con voi nel lettone, vero?”

“Ehm…”

“E poi, senta, glielo devo dire chiaramente. E’ palese che la bambina passa troppe ore davanti alla televisione. Mi rendo conto che quando si è molto impegnati sul lavoro, la tv può essere una buona baby sitter per un po’ di relax. Ma non possiamo fare passare a questi bambini ore davanti ai cartoni. La Bubi ha manifesti deficit di attenzione e manca di vivacità e di interesse verso le attività che proponiamo.”

“Gulp…”

“E poi quelle allergie… come potete continuare a far finta che la bambina stia bene? Non avete sentito degli specialisti, degli omeopati, dei santoni? Signora, senta, parliamoci chiaro. Ad un certo punto una madre deve fare una scelta. O il lavoro o i bambini. Salvare capra e cavoli non si può. Non è possibile.”

“Beh, io…”

“Si vede che lei ha un marito eccezionale, ma uomo non può sopperire a tutte le mancanze della moglie. E’ evidente che è lei l’anello debole della famiglia. E senta, scusi se glielo chiedo così a bruciapelo, ma da quanto non fate l’amore voi due?”

A quel punto mi sono svegliata di soprassalto.

Una maestra che ti snocciola ad una ad una tutte le tue paranoie o è una strega o è il tuo subconscio che parla nel sonno.

Meno male che era il secondo.

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Quando dormire è un problema

Cara mamma,

sai che quando ti scrivo io in genere sta arrivando il predicozzo. Non ti lamentare, dai, che non ti scrivo così spesso.

Siete orgogliosi di me e lo so. Perché son diventata molto autonoma (questa è la parola che usano le maestre). Mi so mettere le scarpe, i calzini, le braghe, la maglia e la felpa. Tutto da sola. Anche il giubbotto. Datemi il mio tempo. Se vi offrite di aiutarmi divento una iena. Voi avete più di trent’anni di esperienza in giubbottologia. Ecchecavolo. Sarà mica un problema se a me ci vogliono cinque minuti invece di uno.

Da qualche giorno mi faccio anche il bidet da sola. Ho sbigottito la mamma, che ha imparato quasi all’alba della pubertà. Ho sbigottito il papà, che non vi svelerò quando ha imparato per pura decenza.

So scrivere il mio nome. Posso scriverlo grande, piccolo e anche medio. Come mi gira. Ma sono sempre molto precisa. Che a me le cose approssimative non mi piacciono.

Però non mi addormento da sola.

O meglio.

Lo faccio a scuola. Quando ho tutte le mie amiche e i miei amici vicino. Che abbiamo fatto una bella banda in classe, eh? Mi diverto un sacco. Quando abbiamo finito di giocare e le mastre gridano “si riordina!”, ce ne andiamo per manina in dormitorio. A destra ho la Sara e a sinistra ho la Serena. Più dietro ci sono Alessandro, Isacco e Davide. Ci sono anche i piccoli, che ogni tanto frignano un po’. Ma io metto la testa sul cuscino e in due secondi mi addormento. Non sento nemmeno la fine del racconto della maestra.

A casa è tutta un’altra storia.

Non la sento proprio, la stanchezza.

Chiediti perché, mamma.

Non ti vedo tutto il giorno.

Mi vieni a prendere alle 16,20 con gli occhi stanchi e la pelle tra il grigio e il verde. Corriamo al nido dal Bubino, perché vuoi a tutti i costi essere lì entro le 16,30 perché sennò rimane l’ultimo di tutta la scuola. Non ce la fai mai. Poi magari c’è la spesa da fare, i vestiti da sistemare, i letti da rifare, la cena da imbastire. Mi piazzi davanti ad un cartone e pretendi che stia lì. I cartoni mi piacciono. Ma mi piace di più stare con te.

E poi c’è il Bubino che mi mena perché è stanco anche lui. Qualche volta ce la facciamo a giocare insieme. Ma non è facile, lo sai. E’ che lui non capisce che deve giocare come dico io. Esattamente come dico io.

La sera ho bisogno di te.

Della tua presenza.

Se siamo nel lettone è molto meglio. Ti abbraccio il braccio e mi addormento veloce.

Nel mio lettino ci metto un sacco. Ma taaaaaaaaaaaaaaanto.

C’hai provato tante volte ad andartene via. A dirmi “la mamma va giù, fai le nanne”. Ma io proprio non ce la faccio. Ho bisogno di te. Vicina.

Ti raggomitoli sulla sedia e aspetti.

Aspetti che mi venga sonno.

Mentre il Papais è giù che sistema la cucina e poi si guarda Ballarò. Che vorrebbe tanto vederlo insieme a te. Ma quando tu finalmente arrivi hai la faccia di Cher senza trucco e senza chirurgia plastica. E il Papais pietosamente ti dice: “vai a letto, che fai spavento”.

E tu vai a letto. E dopo un po’ di ore arrivo anch’io. Perché sul mio lettino non riesco mai a fare una dormita filata. Mai. Me ne esco a nel cuore della notte, incurante del freddo e del buio pesto. Raggiungo il lettone e mi ci infilo. Tié.

Ho bisogno di te, mamma.

E le poche sere che non ci sei, preferisco aspettarti fino alle undici piuttosto che addormentarmi senza di te. E l’ultima notte che mi hai lasciato dai nonni me la ricordo ancora, perché proprio non ci volevo stare.

Non ti lamentare sempre, mamma.

Non so quanto durerà. Forse ancora per poco.

Ma concedimelo, mamma.

Di avere ancora bisogno di te.

Voi due

Avete passato un mese e mezzo in tête à tête.

Tu, Bubino, cercando sempre di intrufolarti nei giochi incomprensibili delle bambine grandi. Provando a ridere quando ridevano loro, senza capirne bene il perché. Protestando quando ti lasciavano indietro. Ma, dì la verità. Non ti sei mai sentito veramente escluso.

Tranne una volta.

Solo una.

In cui la Bubi e la sua amichetta Sofia ti hanno fatto capire esplicitamente che volevano giocare da sole. Allora ti sei fermato in mezzo alla stanza con il labbro inferiore in fuori, il tipico tenerissimo broncio che farebbe capitolare qualunque essere vivente nel raggio di dieci metri. Tremando hai detto: “No mi voiono”.

E tu, Bubi, sei intervenuta subito. Come sempre fai quando lo vedi in difficoltà. Quel “cicciottino” di tuo fratello. Se resta indietro, ti fermi ad aspettarlo. Lo abbracci forte. A volte troppo forte. Ma in genere lui non protesta. E ricambia l’abbraccio.

Come l’altro giorno, quando si è svegliato dal pisolino, mezzo stordito e piuttosto incazzoso. Ti sei avvicinata e lui ti ha stretto forte. “Vuoi me, Bubino?” “Sì, Bubi”, ha biascicato lui, con il ciuccio in bocca, chiudendo gli occhi e godendosi le tue carezze.

Avete imparato a giocare insieme.

O meglio, state imparando tuttora.

Tu, Bubino, gli animaletti li spedisci sempre “a scola” o “a lavoae”. Tu, Bubi, lo so, vorresti costruire storie un attimino più originali. Ma ti presti volentieri per qualche scena banalotta delle sue. Come ti adatti a giocare a rincorrersi. Sembra che ti diverta ancora, esattamente come quando avevi due anni. Giocate al mostro, gridando “iuto! ‘iuto” e non si capisce più se è il Bubino che imita te, o se sei tu a imitare lui.

Non potete più fare a meno l’uno dell’altra. Tu, Bubino, la sera puoi anche crollare dal sonno, ma finché non c’è tua sorella non riesci a chiudere occhio. E tu, Bubi, stamattina andando a scuola, mi hai detto: “Ma, Bubino, ti vedrò solo stasera? Che peccato però…”

E io a insistere che avrete tante cose da raccontarvi. Anche tu, Bubino, che proprio oggi hai iniziato il nido. La sera avrai tante cose da raccontare alla tua sorellina grande. Amici nuovi, giochi nuovi. E sicuramente qualche lacrimuccia. Bubi, aiutalo tu, sai? Aiutalo a capire che mamma torna sempre. Che se ne andrà via con un magone di un metro per due, fisso fisso tra la gola e lo stomaco. Non sarà facile neanche per lei.

Ma l’asilo è bello. La scuola è bella.

Come è bello diventare grandi.

Voi due, meravigliosi Bubini. State diventando grandi.

La signora Sbuffo

La signora Sbuffo ha tre figli.

Uno grande che va alla scuola alimentare. Uno piccolo come il Bubino. E una media che si chiama Sara ed è nella mia classe.

E’ simpatica ed ha la lingua lunga. Per questo ci vado ovviamente molto d’accordo.

Non so cosa abbia fatto di male questa povera Sara. Probabilmente a casa si trasforma in un’insopportabile vipera. Non mi è dato saperlo.

In ogni caso quando la signora Sbuffo la viene a prendere a scuola, le regala, nell’ordine:

  1. muso lungo fino all’ombelico (forse nessuno le ha mai insegnato a sorridere?!?)
  2. sospiri prolungati come se la costringessero a mangiare le zucchine
  3. una serie di battute che per lo più io non capisco
  4. una serie infinita di “sbrigati” “muoviti” “fai presto” “avanti”.

Ieri abbiamo fatto una gita in una fattoria bellissima. Ci siamo tanto divertiti. Ci avevano diviso in gruppi e ogni gruppo aveva un cartellino con un animale.

Io avevo un coniglietto.

Sara aveva un’oca.

Quando Sara ha mostrato il suo cartellino alla signora Sbuffo, lei le ha detto: “Ah, beh, giusto. Proprio un’oca ci voleva per te.”

Non sono sicura che essere paragonati a un’oca sia una bella cosa.

In ogni caso io preferirei una tigre.

Miracolo

Ore 14.00. Proporre alla Bubi un “sonnellino” è come chiederle di cuccarsi il Festival di San Remo.

La nanna del pomeriggio lei la odia. Da tempo immemorabile.

All’inizio fu solo il rifiuto del lettino. Se nanna doveva essere, la Bubi si addormentava solo nel lettone e con qualcuno vicino. Altrimenti ciccia.

Poi divenne un’antipatia generica. Chi riusciva a farle prendere sonno con una storia o una canzone, riemergeva alla fine trionfante come se avesse vinto una finale di campionato. Nonnasanta e Nonnoprof combattevano una sfiancante quanto inutile battaglia. Lei persistendo con i metodi della materna, che 9 volte su 10 erano un fiasco colossale. Lui rassegnandosi a scarrozzare la principessa in passeggino. Sfidando intemperie e temperature.

Infine diventò una sfida puramente politica.

“Mamma, c’è il sole, io non vollio dormire.”

Ho provato prendendo la cosa di petto. La Bubi era capace di piangere anche 40 minuti di fila. Qualche volta crollava sfinita. Qualche altra teneva duro fino alla fine.

Ad un certo punto ho concluso che la Bubi non aveva più bisogno del sonnellino pomeridiano. Ho provato a toglierglielo per diversi mesi. Ma dovevo organizzare la giornata in modo da evitare qualsiasi giro in macchina o in passeggino tra le ore 16 e le ore 19. Perché altrimenti lei crollava addormentata, sfasando tutti gli orari della sera.

Putroppo a volte arrivava a fine giornata veramente troppo stanca, e spesso e volentieri si consumava il dramma.

Alla fine ho adottato il buon vecchio metodo della flessibilità. La regola era che non si dorme al pomeriggio. Ma se il livello di capriccio superava la soglia di sicurezza, allora trovavo una scusa qualunque per portarla fuori in passeggino. Io che mi sono sempre imposta di dirle la-verità-tutta-la-verità-nient’altro-che-la-verità, pur di farla dormire mezz’ora mi piegavo alle bugie più becere. Andiamo al parco, andiamo a prendere un gelato, andiamo al bancomat che poi ti compro un chupa-chupa.

Ma non è mica facile ingannarla, la mia Bubi adorata. Qualche volta insisteva per andare a piedi. Oppure cantilenava per tutto il tragitto cercando di non addormentarsi. Si incavolava nera se le tiravo giù lo schienale. Se mi mettevo a canticchiare una canzone, scattava: “Non cantare, sennò mi addormento”. Se allungavo la strada mi domandava all’infinito: “Ma dove stai andando, mamma?”.

Da quando è iniziato il tempo pieno a scuola, questa piacevole odissea è finita.

Ora la palla è passata alle maestre.

Attendo il miracolo.

Colloquio genitori

Ogni scarrafone è bello (e genio) a mamma soja.

“A parte il pianto disperato al momento del distacco, durante la giornata vostra figlia è molto serena.”

Bene, bene. Me n’ero accorta.

“Diciamo che comincia a interagire con gli altri bambini, ascolta e partecipa abbastanza.”

Cominicia ad interagire? Ma se dopo un giorno mi elencava i nomi di tutti i compagni? Partecipa “abbastanza”?

“Quanto al linguaggio, si fa capire abbastanza bene”.

Si fa capire?!? Ma questa sa di chi sta parlando? La Bubi non smette di parlare da quando aveva 15 mesi. A nemmeno due anni sapeva l’alfabeto a memoria e passava con disinvoltura da un tempo verbale all’altro, compresi congiuntivo, condizionale, passato e trapassato remoto. Non per niente c’ha un Nonnoprof.

Papais, questa sta parlando di un’altra bambina. Sai, con tutti quelli che devono gestire avrà fatto confusione.

Come è possibile che dopo ben due settimane di scuola le maestre non si siano accorte delle doti superlative di nostra figlia? Che non si siano dilungate in lodi sperticate sulle sue incredibili capacità cognitive? Che non abbiano sprecato una parola sui suoi favolosi disegni, sui suoi elaborati discorsi, sulla sua facilità nel socializzare persino con il Mocio Vileda? Che non ci abbiano magnificato le sue mirabolanti potenzialità e non ci abbiano promesso che a cinque anni saprà risolvere equazioni di secondo grado?

“Beh, dai. Non ci ha parlato di problemi, quindi sta andando tutto bene”, se n’è uscito il Papais alla fine con la sua usuale saggezza.

Mi devo rassegnare. La Bubi è un genio solo a casa sua.

La Bubi va a scuola

Ho iniziato la scuola. E non chiamatelo asilo che mi girano i maroni.

Faccio un po’ di sceneggiata quando la mamma mi porta. Butto giù fiumi di lacrime. Aggiungo anche qualche urlo, tanto per aumentare la drammaticità alla cosa. Lo faccio per lei, perché non si senta triste. Che non le venga in mente che sto meglio senza di lei. Poverina, bisogna darle qualche piccola soddisfazione ogni tanto.

Quando se ne va smetto. Non sono mica piccola io. Come quel frignone di Love, il bambino indiano, che piange sempre. Forse perché gli hanno messo un nome da drag queen.

Al mattino mi piace arrivare presto così aiuto la maestra a preparare la pasta di sale e scelgo io il colore. A me piace gialla.

Quando arriva Filippo gli dico di venire a giocare con me. Ma lui si immusonisce e non risponde. Allora io gli chiedo se ha perso la lingua.

A scuola c’è un bel giardino con tanti giochi. Quando usciamo fuori, i bambini grandi girano a frotte di sette-otto e ci travolgono come un branco di cavallette. Poi ci sono i grandissimi. Hanno il grembiule nero e sono dall’altra parte della rete. Il loro giardino è di sassi e non ha i giochi come il nostro.

Andiamo in bagno tutti insieme e io faccio tutto da sola. Mi tiro giù le braghette e faccio pipì, e poi mi lavo le manine, tutto da sola. Sono proprio brava. A casa però glielo faccio fare alla mamma, che sennò si sente inutile, poverina. Ieri mi è scappata la cacca e me la sono fatta nelle mutande. Tutti a ripetermi: “Non ti preoccupare.” Ma a me bastava sapere a chi dovevo chiedere. Ecchecavolo.

Mi piace quando mangiamo tutti insieme. Assaggio tutto, anche l’insalata.

La maestra Manuela pretende che le dia sempre un bacino quando vado via. Odio queste smancerie. Ma di solito glielo do, così almeno sta zitta.

Il mio migliore amico è Isacco. Quando andavamo al nido, che non sapevo parlare bene, lo chiamavo Isaho. Siamo andati anche a giocare da lui un pomeriggio. Ha una casa fantastica con un grande parco e tantissimi animali, perfino un maiale. Siamo andati a vedere le galline e ho preso in mano un uovo caldo caldo appena fatto. Di solito le uova mi fanno schifo, ma quello lì era bellissimo. Il nonno di Isacco ci ha fatto vedere i coniglietti che sono nati da una settimana. La loro mamma gli ha fatto il nido con il suo pelo.

A me però non piacerebbe avere i pelassi del papà nel mio letto.

Santa subito

Nonnasanta è sposata con Nonnoprof.

Lavora in una scuola materna. E’ capace di gestire da sola una trentina di esseri scatenati senza perdere il sorriso (né le facoltà cerebrali). Nei tre anni che li ha per le mani li trasforma da frignoni pisciasotto in perfetti e autonomi scolaretti pronti per le elementari. I genitori programmano la nascita del secondogenito in modo che finisca nella sua classe. La riempiono di regali, la fermano per strada. L’ultimo giorno di scuola piangono come agnelli al macello: “Non troveremo mai una maestra come lei”.

Nonnasanta non ha nessuna intenzione di andare in pensione. Anzi. Si cucca pure gli straordinari. Perché appena torna a casa l’aspettano i miei adorabili Bubini.

Con loro le strategie della materna non funzionano. La maestra diventa nonna. E tutta la straordinaria professionalità acquisita in decenni di esperienza va a farsi benedire.

A scuola Nonnasanta ne addormenta venti in un colpo solo. Ma si piega a scarrozzare la Bubi in passeggino con trenta gradi all’ombra purché dorma almeno una mezz’ora.

Nonnasanta riesce a far mangiare da soli tutti i suoi alunni, che a fine anno ingollano allegramente persino le odiatissime verdure. Ma rincorre la Bubi con il piatto e la imbocca davanti alla tivù se lei sta passando uno dei suoi (tanti) periodi di inappetenza.

Nonnasanta sopporta con nonchalance le lagne e i pianti dei treenni durante l’inserimento. Ma crolla nel panico assoluto se il Patato frigna più di due minuti. “Che stia male?”

A scuola Nonnasanta intrattiene i piccoli con canzoni e racconti. A casa l’ho sentita più volte decantare le virtù salvifiche di un buon dvd.

La Bubino-dipendenza per Nonnasanta è ormai in fase avanzata. Dopo esserseli sciroppati per tutta la settimana, è capace perfino di invitarci a pranzo la domenica. E di prepararci un pasto da gourmet con annesso babysitteraggio. A fine giornata le viene addirittura in mente di offrirsi volontaria per lavare quelle due valigie piene di roba del mare, che giacciono intonse da settimane.

Basterebbe molto meno per farla santa subito.

Regole e scuola

Prima visita alla futura scuola dell’infanzia della Bubi.

Il gasamento è papabile. In giorni normali ci vuole almeno una mezz’ora di patteggiamenti prima di riuscire a prepararla per uscire. Oggi è in pigiama che mi aspetta fuori dalla porta. Nessun “non lo vollio” sui vestiti che ho scelto. Nessun calcio nei denti quando le metto le scarpe. Si lascia vestire con una docilità mai vista. Non riesco nemmeno a pettinarmi, che lei si è già lanciata sulle scale del pianerottolo.

Arriviamo con un quarto d’ora di anticipo. 15 minuti per scoprire che nella futura classe della Bubi ci saranno una buona parte dei personaggi de La Bella Addormentata nel Bosco. Una fatina Serena, un re Stefano, persino una principessa Aurora.

“Non c’è nessuno che si chiama Principe, mamma”.

Le maestre hanno  preparato un piccolo rituale di accoglienza. L’appello con qualche battuta riservata a ciascuno, un giro per i vari luoghi della scuola, un canto e dei regali da parte dei bambini più grandi e poi dei giochi in giardino.

Ma la Bubi scalpita. Tutti gli altri bimbi sono seduti ad ascoltare. Lei in pochi minuti ha fotografato l’ambiente. E parte per la sua esplorazione personale. Mentre fanno l’appello, lei ha già visionato ogni angolo del salone. Mentre si va a visitare i bagni, lei vuole vedere la mensa e provare i tavolini. Mentre vanno in mensa, lei parte per i bagni e prova anche il waterino. Mentre entrano nel dormitorio, lei fugge infastidita. “No, le nanne non le faccio”. Quando aprono la porta della classe, le si spalanca un mondo (ndr: la parola “classe” l’ha imparata oggi e non ha fatto che ripeterla per le successive dodici ore).

C’è solo un altro bimbo che dimostra la stessa intraprendenza. La nonna che lo accompagna, visibilmente seccata, sibila: “Eh, el sta sentà là a sentir lu, figuriamoci!”

Ma la Bubi invece ha ascoltato, eccome. Me lo dimostra quando usciamo. “Vedi, mamma, qua ci sono le foto dei bambini. Ognuno ha il suo asciugamano”. Dettagli? Non credo.

Che non riuscisse a stare seduta ad ascoltare a qualcuno può sembrare negativo. A me sembra invece indice di gradimento, interesse, gioia, curiosità. Che non seguisse il giro prestabilito è segno che il posto le è sembrato subito familiare, non le incuteva paura, anzi, la spingeva all’esplorazione.

Questione di punti di vista.