Scusate se son nonna (a volte)

17,30 circa di un giorno lavorativo qualsiasi.

Parcheggio. Nel bagagliaio 1-2 borse della spesa. Il Bubino già scalpita per correre a visionare da vicino la “dioccata”. E’ un edificio fatiscente che si affaccia pericolosamente sul nostro cortile. Luogo di mostri e misteri, la “dioccata” è stata promossa da tempo a teatro per eccellenza delle storie noir preferite dai Bubini.

Il Bubino osserva invasato i gatti che se ne entrano e se ne escono indisturbati. Lancia fili d’erba e sassi attraverso la finestra rotta. Raccoglie pezzi di balcone di legno imputridito. Venderebbe il suo ciuccio per poterci entrare. Piccolo Ulisse senza paura.

La Bubi, altrettanto attratta dalla “dioccata”, alla fine si fa irretire dal gruppetto di vicini adolescenti e da tutta la loro carica seduttiva di aipod, aipad e nintendodiesse. La paziente Giovanna, lunga e magra come uno stelo di grano, ogni sera le fa lavare e spazzolare il suo cane elettronico.

Non dura molto. I Bubini preferiscono ancora gli animali di carne e pelo. E quindi, come ogni sera, il coniglio Mimì viene estratto a forza dalla sua gabbia. Bianca palla di pelo morbidissimo. Occhi rosa. Indefessa resistenza alle carezze violente del Bubino e allo smisurato affetto della Bubi.

E poi ci sono i gatti da cercare. Si nascondono nella siepe del vicino. Ogni volta che ne scoprono uno partono ululati di gioia.

E infine le bacche. Belle bacche nere succose. Da strappare a piene mani dalla siepe e far finire giù giù dalla grata del tombino. Avanti e indietro. Siepe e grata. Grata e siepe. Dieci. Venti. Cento volte.

 

A volte ho l’impressione di essere un po’ più nonna che mamma.

E’ che mi sento riempire dalla struggente consapevolezza che tutto durerà poco.

Trovo quasi poetico il lento trasformarsi in yogurt del latte nelle borse della spesa, abbandonate al sole.

L’inevitabile tramutarsi delle bacche in macchie viola sui vestiti dei Bubini. Macchie assolutamente indelebili, lo so per certo.

I minuti che scorrono inesorabili, mentre a casa mi aspettano le solite 22.545.751 cose da fare.

In fondo chi se ne frega.

Perché dovrei arrabbiarmi? Perché dovrei fargli fretta? A che scopo?

Il mio unico desiderio è stare qui a guardarli.

Adorante.

I miei piccoli gioielli felici.

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Routine e sfiga

Ridimensionare. Ecco la chiave.

Queste ultime settimane sono state un’estenuante battaglia contro le più varie amenità. Dalle più banali, come le notti magiche per colpa di un Patato insonne (saranno i denti? la sete? la sfiga?), a quelle intermedie (vedi scarlattina e influenze collettive), fino alle più serie, che ci hanno spedito direttamente in ospedale. Ne siamo usciti per tre sole ragioni.

Primo. Perché siamo rock (come dice sempre la Bubi) e “a noi non ci sconfigge nessuno”.

Secondo. Perché esiste il Nonnoprof, sempre disponibile e sempre in forma, nonostante gli straordinari pazzeschi a cui l’abbiamo costretto.

Terzo. Perché prima o poi tutto finisce. E si torna alla routine.

Ma ci sono casi in cui la malattia diventa la routine. Ne ho ascoltate tante di storie in questi giorni. I genitori alla fine ce la fanno. Perché devono farcela. Ma a che prezzo?

Un amico che ha un bimbo diabetico tempo fa mi ha girato queste righe. Ve le riporto integralmente, perché mi hanno davvero colpito.

Il giorno 14 novembre ho partecipato come volontaria, alla giornata mondiale del diabete e sono rimasta al quanto stupita di come le persone alle quali è stato rilevato un valore glicemico piuttosto alto, persone adulte, si consolassero con la battuta “ben ben el diabete el lo ga anca el Sindaco de Trent!” e non ho potuto fare a meno di associarli a quelli che sempre più spesso sento dire “bè al giorno d’oggi non è così grave come una volta”…

In parte forse queste persone hanno ragione, perché il diabete sappiamo che in sé non è una malattia invalidante e che in realtà permette, con un corretto stile di vita, di ottenere le stesse soddisfazioni di chi il diabete non lo ha e il nostro Sindaco con le sue affermazioni di questi giorni può esserne un esempio, ma forse queste persone non hanno mai avuto a che fare veramente con il diabete e pertanto non gli è molto chiaro quanto poco scontata sia la possibilità di condurre una vita “normale”, ma quanto impegno invece comporti arrivar ad ottenere questo risultato, pertanto io che non ho il diabete di tipo 1, né di tipo 2 ma sono una diabetica di “tipo 3”, (così sono definita quando dico di essere mamma di due bambine diabetiche, perché anche se la malattia non colpisce in prima persona i genitori, quando il diabete entra in casa, di diabete si ammala tutta la famiglia ed i genitori lo vivono quasi quanto i figli essendo le figure principali di riferimento per la gestione quotidiana), non ho potuto fare a meno di pensare a quei genitori che ogni giorno, nonostante tutti gli sforzi possibili anche da parte dei loro figlioli, si trovano a dover rincorrere valori di glicemia che cambiano nell’arco di poche ore senza alcun apparente motivo, sentendosi il più delle volte colpevoli per questo; a quei genitori che si trovano a dover misurare la glicemia anche più di 10 volte al giorno ad un bambino di un solo anno perché è difficile capire a quell’età se il suo pianto sia dovuto a capricci o magari ad un malessere portato da un’ipoglicemia; a quei genitori che devono riuscir a far accettare la cronicità di una malattia come il diabete e che nel momento in cui si sentono chiedere quando guarirò?, non hanno ancora una risposta da dare; a quei genitori che a volte si trovano a dover “implorare” la collaborazione degli insegnanti per poter star, non dico sereni, ma almeno un tantino tranquilli mentre i loro figli sono a scuola, ma che non sempre – purtroppo – trovano la collaborazione che si aspettano da un educatore; a quei genitori che si alzano in piena notte per controllare la glicemia del figlio temendo un’ipoglicemia notturna; a quei genitori che non sempre hanno un solo figlio a cui pensare ma che la malattia li porta ad avere un atteggiamento più attento nei confronti di quello malato sacrificando a volte le esigenze di quello sano; a quei genitori che con il cuore in gola e facendosi quasi violenza nell’ansia totale, salutano il figlio che parte per la gita – perché è giusto che faccia le stesse esperienze dei compagni –  e si sentono chiedere “ma in caso di ipoglicemia lui sa ben cosa fare vero?” (…certo, ma forse se lo volessero sapere anche gli altri, sarebbe molto più sicuro per tutti); a quei genitori che consolano le lacrime del figlio quando, tornando da una festa della scuola, della catechesi o della propria squadra, le giustifica dicendo che a lui non è stato dato un dolce ma gli è stato detto che lui sa bene il perché e quindi dovrebbe capire; a quei genitori che, dal momento dell’esordio, conoscendo quali possano essere le complicanze del diabete dopo un certo periodo di anni di malattia, si trovano a fare i conti pensando che già a 15 anni possano manifestarsi sui loro figli; a quei genitori che non trovano collaborazione nei parenti che non riescono a capire che il “ma dai per una volta” è diseducativo e non aiuta nessuno; a quei genitori che si sentono in colpa nell’essere “sani”…

Ecco credo sia giusto che tutte quelle persone e pure quelle che forse leggeranno queste righe, sappiano anche questo, che l’essere diabetico non è solo rinunciare alla cioccolata, alla marmellata e ai dolci, cosa tra l’altro che i bambini se educati in maniera corretta alla malattia, capiscono meglio e prima degli adulti, ma è un impegno molto più grande da vivere giorno dopo giorno per tutta la vita, anche se magari non sarà pesante come quella di un Sindaco, un impegno da mettere in quello zainetto con tutto l’occorrente che ai bambini con diabete viene insegnato, sin dal giorno dell’esordio, di portare sempre con loro e di non dimenticare mai!!

Sabrina Moser

Malinconia

Lunedì riprendo a lavorare.

Sono una di quelle privilegiate (come da definizione di Maria Star Gelmini) che si è concessa una luuuuuuuunga pausa dopo la nascita del Patato. Rientro in ufficio dopo quasi un anno di assenza. Non penso di essere mancata a nessuno. Del resto l’ufficio non è mancato a me.

Ho vissuto di presente in questi mesi. Il presente eterno dei bambini.

Non posso dire di essermi goduta ogni istante, perché non è così. Come i bambini, ho sofferto, ho gridato, ho pianto, ho fatto i capricci. Ho cercato di vivere tutto intensamente, come loro. Le pagine di questo blog sono state anche un modo per fermarlo questo presente. Per dargli concretezza, fisicità. Per rifletterci sopra senza lasciarlo semplicemente scorrere.

Questi mesi non torneranno più. Ora si corre. Run, baby, run.

Mi mancheranno le nostre giornate sprogrammate. Unico obiettivo: arrivare a sera senza impazzire e restando il più possibile all’aria aperta. Senza orari, a parte quelli dettati dai bambini. Mi mancherà la nostra routine parchetto dietro casa – panificio – rientro sbocconcellando il paninetto al latte. Mi mancheranno i risvegli rilassati, le mattinate in pigiama, i “cosa facciamo oggi?”.

In fondo sono stati belli proprio perché sono durati poco.

Tutta la vita così no, eh!? O sì?