Ai confini della realtà

Lei. Sempre coordinata. Borsetta-scarpe-occhiali-vestito. Fresca di parrucchiere. Trendy e sexy. Anche quando fa le pulizie di casa. La chiameremo la Fèscion. Genera frequentemente una certa frustrazione in Mamma Giulia. Che notoriamente si veste arraffando le prime cose che le capitano a tiro con l’unica accortezza che non abbiano la patacca di moccolo sulla spalla. Mamma Giulia, che stamattina si è abbinata maglia, scarpe e calze con un paio di pantaloni, convinta che fossero neri, e si è accorta solo a chilometri da casa che i suddetti pantaloni erano blu. E ora, in ufficio, cerca di dissimularli malamente sotto la scrivania.

Lui. Il figlio della Fèscion. Si aggira per il cortile del nostro condominio armato fino ai denti. A Carnevale si è vestito da paracadutista in missione ONU, completo di cinturone con bombe a mano intelligenti, fucile a canne mozze, un mezza dozzina di beretta automatiche. A cinque anni e mezzo parla leggermente meglio del Bubino. Trascorre ore da solo in cortile con le sue armi. Per rivolgersi a lui la Fèscion non parla, sbraita. Lo chiameremo l’Armato Trascurato.

Scena Uno.

Mamma Giulia esce dalla macchina come al solito carica come un mulo da trincea, reggendo il Bubino con un braccio e con l’altro una serie di merci appallottolate, tra le quali si riconoscono a malapena la borsa, il cestino del pranzo, il cappotto, lo zainetto della Bubi, i lenzuolini di scuola da lavare.

La Bubi: “Mi scappa la cacca”.

Mentre accelero l’andatura, ci approccia l’Armato Trascurato: “Può Bubi giocae qua?”

Mamma Giulia: “Guarda, tesoro, devo farle fare merenda al volo e poi andiamo a far la spesa”.

Lui: “Mmmm”.

Mamma Giulia, nota masochista dal cuore tenero: “Vuoi venire su a fare merenda da noi?”

Lui: “Chiedo mamma”.

La Fèscion non esce nemmeno. Forse è occupata. Solo dopo diverse ore presa a intrattenere l’Armato, evitando che il Bubino fosse impallinato ogni volta che gli distruggeva una costruzione, e ovviamente dimenticando che doveva fare la spesa, Mamma Giulia scopre che:

  1. la Fèscion era andata tranquillamente a giocare a tennis;
  2. a casa c’era pure suo marito;
  3. nessuno dei due si era minimamente preoccupato che una sfigata da sola con tre bambini appena uscita dal lavoro magari fosse un po’ stanchina.

Scena Due.

Ore 19.15.

Suona il campanello. La Fèscion non sale nemmeno. Mi urla dalle scale. “L’Armato vuole vedere la Bubi. Solo dieci minuti, eh? Ha già cenato, sai, non ti preoccupare!”.

L’Armato si fionda sul tappeto: “Io fae fattoia co Lego”.

Mamma Giulia trattiene a malapena la Bubi, che stava finendo di cenare: “Tu non ti muovi. Finisci questi bocconi e dopo vai a giocare”.

Il Bubino scalpita, vuole scendere anche lui.

Mamma Giulia abbandona la sua cena e si siede sul tappeto. Blaterando frasi sconnesse sul giocare insieme. Salvando più volte il Bubino dal linciaggio. Proteggendo la Bubi dalle ire dell’Armato, infuriato perché lei ha osato toccare il suo elicottero da combattimento.

Il Papais salva la situazione con un bel DVD dei Barbapapà.

“Volete qualcosa da mangiare, bambini? Un po’ di frutta? Uno yogurt?”

L’Armato: “Io solo kindel”.

La Bubi: “Che cosa sono i kindel?”

“Niente, niente, tesoro.”

L’Armato Trascurato mi stringe il cuore. Comincia a guardare fuori dalla finestra. “Potate me casa?”

“Ti porto a casa, tesoro?”

“No, no. Pima finise catone”.

Visto che i dieci minuti sono passati da un pezzo Mamma Giulia e il Papais si lanciano in ipotesi improbabili di cataclismi nucleari, o su molto più plausibili inciuci con il maestro di tennis. La Fèscion si presenta al campanello alle 20.25.

“Mi pare abbastanza, no? Dai, Armato, vieni a casa. Hai messo a posto i giochi? La sai la regola, eh? Quello che hai tirato fuori lo rimetti a posto.”

“Non ti preoccupare, Armato, i giochi erano già fuori da prima.”

“Beh, dì grazie a Mamma Giulia e ciao ai Bubini.”

“Tzao.”

Mamma Giulia e il Papais, attoniti, passano il resto della serata a riflettere sul perché in questo momento siano loro a sentirsi in imbarazzo e non la Fèscion.

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Lunedì

“Bubino mio adorato, cucciolo santo, luce dei miei occhi, dì: M-A-M-M-A”

“PAPA’!”

“Stella del mio cuore, amore mio bello, gioia della mia vita, prova ancora. Dì: M-A-M-M-A”

“PAPA’!”

“Cuoricino, dai che lo sapevi dire bene una volta. Tesoro infinito, dì: M-A-M-M-A”

“PAPA’!”

Certo che i figli ti sanno dare la motivazione giusta per affrontare il lunedì.

Divagazioni patatesche

Il Patato aveva sette mesi quando mi ha regalato il primo “mamma”.

Dal suono un po’ piagnucoloso, una specie di lamento prolungato (tipo “mmmmmammmmmmaaaa”), ma comunque rivolto proprio a me. Ammazza, che soddisfazione. Della serie: potreste picchiarmi ora, non me ne accorgerei neanche.

Da allora il vocabolario patatesco si è arricchito notevolmente. Ma quasi esclusivamente con variazioni sulle due sillabe “ma-ma”, a volte con intonazioni francofone.

Alcuni esempi:

  • amm amm” (in tono deciso e  autoritario): questo è facile e chiunque potrebbe interpretarlo come “damme da magnà e subito, altrimenti so’ dolori, e tu sai cosa intendo”
  • mememme?” (in tono vagamente interrogativo e occhi a triangolo): in genere indica “dove è finita la macchinina/palla/paperetta? mi diverto a cercarla, però accidenti dammi una mano, no?”
  • mememme!!!” (in tono esultante): “oh, finalmente l’ho trovata, ed è tutto merito mio, eh? se aspettavo te stavo fresco!”
  • meau?” (accompagnato dal dito indice che fa “no no”): “questo non devo toccarlo, vero? Sicura sicura? Lo so, dai, volevo solo metterti alla prova”
  • meaumou” (secco, senza strascichi, indicando varie cose): “ecco, mi sono appena svegliato e voglio vedere se tutto è al suo posto, sì l’orsetto c’è, sì i pulcini a dondolo ci sono, sì l’interfono con la luce verde pure; brava, mamma, non hai spostato niente, son proprio contento”
  • aaaaammmmmmammmmmma!!!” (a voce alta, piangendo): “aiuto, mi son svegliato al buio e ho paura, vieni a prendermi, mamma, tu o chiunque altro, va bene lo stesso, ma fate presto, è urgente”
  • mammmmmmammmm” (attaccato alle mie gambe, frignando sommessamente): “dai, prendimi in braccio, un minutino, che ti costa, sono un po’ stanco, per favore!”
  • babamamma” (intenerito e sorridente): non ci crederete ma questo va interpretato letteralmente; il Patato nutre un’insana passione per i Barbapapà e per Barbamamma in particolare, si sfoglia il suo libretto per ore in assoluta adorazione. Grazie a quei proteiformi personaggi colorati nel vocabolario patatesco stanno entrando altre sillabe e (udite udite) l’altro ieri se n’è uscito un chiarissimo “papà”. Il Papais è convinto che fosse rivolto a lui e non al progenitore rosa vagamente omosessuale che il Patato stava indicando. Lasciamoglielo credere.

Di gelosia non ce n’è una sola. La prima fase: crisi di abbandono

Come al solito avevo letto tanto sull’argomento.

Ma come al solito la realtà è stata molto più spiazzante. Quando mi sono ritrovata faccia a faccia con lei, la Gelosia, niente di quello che avevo letto mi sembrava funzionare.

Non stato è facile riconoscerla, quella brutta bestia.

La prima volta che si è presentata mancavano circa 2 mesi al parto. La Bubi ha cominciato a svegliarsi spesso di notte. Cosa abbastanza usuale per lei fino a poco tempo prima. Ma il brutto è che si svegliava urlando. Angosciata. Terrorizzata. Ci voleva anche un’ora per calmarla.

Poi ha iniziato a fare fatica ad addormentarsi. Non funzionava più niente della solita routine. Alla fine mi ritrovavo a tenerle la manina. Per ore. Ogni volta che cercavo di estrarre la mano dalla sua presa con precisione chirurgica, lei, matematicamente, si svegliava.

“Stai ancora un pochino mamma”.

Il “pochino” si dilatava al punto che per tenermi sveglia facevo gli esercizi al perineo. In genere al quattordicesimo tentativo di estrazione della mano con conseguente risveglio, gettavo la spugna e la portavo nel lettone. Ma nonostante dormisse avvinghiata a me come una cozza, gli incubi tornavano a farle visita. Puntuali.

In un momento di calma, le chiesi direttamente che cosa le facesse tanta paura. La risposta fu spiazzante.

“Ho paura che la mamma non torni più”.

Così. Letteralmente. Con il congiuntivo al posto giusto. Una bambina di due anni appena compiuti che si autopsicanalizza con una chiarezza degna di Freud. Così l’ho interpretata io: “La mia mamma non tornerà mai più quella di prima. Questo pancione la sta cambiando. E mi fa paura.”

Cosa fare? A quel punto dovevo farle capire che sì la mamma sarebbe cambiata, ma il mio bene per lei sarebbe rimasto sempre quello. Fino ad un attimo prima avevamo letto insieme molti bei libretti sul parto e sull’arrivo del fratellino (se volete li trovate qui, qui e qui). Le avevano dato un’idea fin troppo precisa di cosa sarebbe accaduto.

Allora mi sono trasformata in una semi-buddista. Le ripetevo in ogni momento il mio mantra: “La mamma torna sempre”. Lo facevo veramente come una buddista, con voce cantilenante, monotona. “La mamma torna sempre”. Soprattutto prima della nanna sembrava funzionare a meraviglia. Non vi dico la gioia quando l’ho sentita ripetere la stessa frase al suo orso mentre lo metteva a dormire. “La mamma torna sempre”.

Quando tutto sembrava risolto, è intervenuta la sfiga. E mi sono rotta un piede. Ma questa è un’altra storia.

Momenti di assoluto godimento

In genere durano poco. Ma la felicità di mamma Giulia viene anche da questi piccoli lussi quotidiani.

Intanto, finché sono in maternità, possiamo svegliarci con calma. E concederci il piacere assoluto di una buona mezz’ora di cocccole nel lettone prima di cominciare la giornata. La Bubi che abbraccia il Patato. Lui che la ricambia con i suoi adorabili gorgheggi. Io che li divoro entrambi di baci, gli faccio il solletico, li spatacchio.

Se qualche nonno è tanto gentile da guardare il Patato, il riposino del pomeriggio io e la Bubi lo facciamo nel lettone. Me ne frego delle regole. Dormire con il proprio bimbo è un godimento troppo grande per non concederselo mai. E pazienza se prima di crollare la Bubi si trasforma in un lottatore di wrestling. Sopravvivo ai calci e ai pugni, solo per godermi il piacere del suo corpo che piano piano si rilassa, si abbandona. E poi la osservo addormentata. La sua pelle di porcellana, la sua bocca a cuore, le sue lunghe gambe rannicchiate. E le manine unite sotto la guancia, l’archetipo dell’angelo che dorme.

La sera è il momento del massaggio al Patato. Beatitudine estrema. Affondo le mani e la faccia nella sua morbida ciccia. Aspiro a pieni polmoni il suo odorino da neonato. Gli spernacchio il pancino. E lui che si lascia viziare, contento di questo (raro) momento solo con la mamma. Mi ringrazia con urletti di gioia, la bocca aperta, gli occhi espressivi che ridono felici.

Mia madre ogni volta mi assilla: “Fotografa! Riprendi!”. Forse ha ragione lei.

Ma che volete. Preferisco registrare con la mente questi istanti, sperando di riuscire a tirarli fuori nei momenti bui.

Le mamme che invidio (Parte seconda)

Tutte le cose che mamma Giulia continua a non riuscire a fare.

Invidio e ammiro con assoluta sincerità le mamme che usano i pannolini lavabili. Ne guadagna l’ambiente e ne guadagna il culetto dei loro bambini. Io mi son lasciata banalmente scoraggiare dall’idea delle mille lavatrici da fare. Già non riesco a star dietro a quelle normali.

Invidio le mamme che hanno una stanza per i giochi. Da noi i giocattoli della Bubi hanno invaso con sistematicità ogni angolo di casa. E dire che il Patato non sta ancora contribuendo.

Invidio le mamme che fanno splendide acconciature alle loro bambine. Mi accontenterei anche di semplici codini. Quando ci provo, la Bubi fugge inferocita, manco le avessi proposto la cicuta. Come al solito il discorso l’ha chiuso brillantemente il Papais: “I capelli son suoi, li tiene come vuole”. Parole sante.

Invidio le mamme che hanno insegnato ai figli a stare composti a tavola. Da quando abbiamo tolto la barriera al seggiolone Stokke, la Bubi scorrazza come una scimmia da una sedia all’altra, quando non cerca di arrampicarsi sulla tavola. Il più delle volte mangia reggendosi con una gamba sola sul bordo del poggiapiedi.

Invidio le mamme che riescono a mettere a nanna i loro figli contemporaneamente. Le poche volte che ci ho provato, siamo finiti uno sopra l’altro sul lettone. Il Patato agganciato alla tetta e la Bubi accovacciata sulle mie cosce. Alla faccia di Estivill e di “Fate la nanna”.

Invidio le mamme che si fidano del loro istinto. E’ la migliore delle strategie, che nessun libro può insegnare. Io la sto imparando a poco a poco.

Invidio le mamme calme, che non perdono la pazienza, che applicano sempre e comunque il metodo dell’empatia. E’ un periodo un po’ difficile per la mia Bubi, ne parlerò presto in un post. Mi sta davvero mettendo alla prova e la pazienza la perdo, eccome se la perdo.

Sviolinata al Papais

Mio marito non è un uomo. E’ un supereroe.

E’ dotato di speciali sensori che controllano il mio grado di sopportazione dell’universo bambinesco e si attivano automaticamente non appena si supera la soglia critica. Può essere un provvidenziale giro in bici con la Bubi, una favolosa crema catalana preparata in tempi record mentre lotto per addormentare le belve, due righe di email capaci di toccare le corde giuste. Quando mi manca veramente un soffio al tracollo, il Papais trova sempre il modo di evitarlo. Magicamente.

Gode di poteri trasformisti paragonabili a quelli di Barbapapà. Quando ci capita per sventura che la Bubi dorma con noi, l’unmetroeottantasei del Papais riesce a comprimersi in una superficie infinitesimale. La sua schiena si trasforma in un morbido cuscino, solo perché l’isterica non apprezza il suo petto peloso. L’intero suo corpo diventa un sacco da boxe per parare i colpi notturni della tenera creatura.

E’ l’unico in grado di competere con la logorrea della Bubi. Durante le sue crisi tipiche da duenne, lui soltanto riesce a farla ragionare con il solo potere delle parole senza ricorrere agli svariati mezzi di coercizione che tenterebbero la mamma.

E’ capace di passare dallo stato solido a quello liquido in pochi secondi. E’ sufficiente la magica formula, che ormai la Bubi sa usare benissimo e perfettamente a proposito: “Papais, sei un uomo bellissimo”. Il Patato non ha ancora affinato le sue tecniche, ma sono sicura che presto ci riuscirà anche lui.

Tra gli strumenti in dotazione con la tenuta da supereroe credo ci siano:

  • una bacchetta magica. Quando la cucina sembra sopravvissuta a un disastro nucleare e io balbetto un “pulirò domani” prima di collassare sul letto, il Papais me la fa trovare magicamente a posto la mattina dopo (lo so che non ha la bacchetta, santo di un uomo, si sveglia prima dell’alba per farmi di queste sorprese).
  • un paio di occhiali speciali. Solo questo può permettergli di continuare a farmi complimenti anche quando ho raggiunto il livello massimo di imbarbarimento fisico.
  • dei silenziatori potentissimi che gli permettono di prepararsi per l’ufficio lasciando dormire il resto della famiglia. I Bubini si sveglieranno più pimpanti che mai non appena lui sarà uscito, ma per una mamma esausta anche dieci minuti di sonno in più sono come la manna dal cielo.
  • dei razzi metaforici che gli consentono di innalzarsi oltre le magagne quotidiane. Si sa che solo guardando le cose dall’alto si trovano le soluzioni (e si riesce a ridere).

Me lo sono sposato io, questo super papà, e me lo tengo ben stretto. Tié.

Questo post partecipa al
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Storie di latte e di fortuna

Sono convinta che allattare dipenda dalla fortuna, ma dalla fortuna di incontrare le persone giuste al momento giusto.

Con la Bubi l’ho avuta, questa fortuna.

Dopo che le infermiere mi avevano torturato per giorni i capezzoli nel vano tentativo di attaccare la recalcitrante creatura. Dopo che perfino il tocco della camicia da notte sul seno mi faceva saltare dal dolore. Dopo che ho visto il sangue uscire dalla bocca della mia Bubi (il sangue, sì, come dalla bocca di un piccolo vampiro affamato). Dopo aver stramaledetto tutte le mamme che vedevo allattare con gioia e piacere. Dopo le ore passate sul tiralatte invece di dormire (che ricordi quella macchina infernale, quel rumore diabolico nel silenzio della notte). Dopo le lacrime versate davanti al pediatra al quale avevo affidato la mia bambina, dimagrita e urlante. Dopo i biberon di latte artificiale, che finalmente mi sembravano la salvezza.

Dopo tutto questo ho incontrato Alba e Sara, due volontarie del gruppo di auto-aiuto per le mamme in allattamento. Le persone giuste al momento giusto. Non mi hanno proposto regole, dogmi, capitoli da leggere. Senza fanatismi e con infinita dolcezza, mi hanno dato consigli pratici. Pratici, accidenti, perché è di questo che si ha bisogno quando non si sa nemmeno come vestirla, la creatura.

Ho iniziato a indossare le coppette rigide (tipo queste). Sembravo la moglie di Mazinga, ma mi davano tanto sollievo. Ho ricominciato ad attaccare la Bubi, rigorosamente prima del biberon. Ma non per un’ora, come facevo prima. 20 minuti da una parte e 20 dall’altra. Ho iniziato a fidarmi del mio istinto, a capire quanto biberon proporle dopo la poppata o se non proporglielo affatto. Ho letto testimonianze e consigli di altre mamme, soprattutto da La Leche League. E mi sono convinta che forse ce la potevo fare anche io.

Morale. Compiuti i tre mesi la Bubi era allattata esclusivamente al seno. Non mi sono privata dell’immenso piacere di crescere la mia bimba con il mio latte.

Non finirò mai di ringraziarle, Alba e Sara.

Strategie salva-tempo

Chi non ha figli difficilmente lo può capire.

Ma ci sono momenti nella vita di un genitore in cui ogni scusa è buona per ritagliarsi un piccolo spazio personale.

Io, che i Bubini me li sciroppo tutto il santo giorno, ho affinato alcune strategie che vi rivelo a costo di smascherarmi con il Papais.

Strategia 1. “Amore, devo andare in bagno”.

Oh, quant’è sublime la lettura sul water! Fossero anche le istruzioni del tiralatte, il trucco è prolungare il più possibile e con ogni mezzo quell’unico, delizioso momento. Almeno finché non sento l’adorabile vocina della mia Bubi. “Ti ho trovata!”

Strategia 2. “Amore, vado a buttare le immondizie”.

I periodi più bui della nostra carriera di genitori sono legati al binomio pieno inverno / Bubini ammalati. L’isolamento prolungato ci obbligava persino a tirare a sorte il fortunato che  sarebbe sceso a gettare la spazzatura. Che tempi.

Strategia 3. “Amore, devo fare una telefonata importante”.

Di solito, la frase è seguita dalle inequivocabili parole: “DI-LAVORO”. In questo momento perciò la strategia è riservata inequivocabilmente al Papais. Accidenti.

Strategia 4. “Amore, vado a bagnare le piante”.

Questa era la tecnica preferita dal Papais. Almeno fino a quando la Bubi non ha scoperto un’insospettabile propensione per la botanica e lo segue come una zanzara appena fa cenno di uscire in terrazzo. “Io ti aiuto!”

Strategia 5. “Amore, vado a cambiare il Patato”.

Il fasciatoio è nello studio. Nello studio c’è il computer. Avete già capito. Unica accortezza: potrebbe destare sospetti dichiarare che il Patato abbia evacuato tre volte nel giro di mezz’ora.