Di gelosia non ce n’è una sola. La terza fase: piccole regressioni crescono

Quando l’Edipo non c’è, la mamma diventa piovra.

Quando la Gelosia si è riaffacciata alla nostra porta, avevamo ormai sbandierato a mezzo mondo che “No, la Bubi non è gelosa!”. Infatti stava solo cominciando una serie di piccoli segnali.

La Bubi non mangiava più da sola. O meglio. Non mangiava da sola quando c’ero io presente. Il Nonnoprof e la Nonnaiaia mi assicuravano che quando andava da loro si arrangiava senza fiatare. Ma con la mamma doveva essere imboccata.

La Bubi giocava a fare la “bimba piccola”. Si sdraiava nella culla. Faceva “ué ué ué”. Faceva finta di ciucciare al seno. Oppure giocava alla mamma con i suoi pupazzi. Imitava alla perfezione i nostri atteggiamenti con il Patato. Parlava come noi. Si muoveva come noi. Faceva addirittura le stesse espressioni del viso.

La Bubi voleva la mamma. Sempre. Per fare le cose più elementari c’era bisogno di me. Per lavare le manine. Per vestirsi. Per cambiare il pannolino. Per andare a prenderla nel lettino la mattina.

Il Papais, più paziente che mai, ci provava ogni volta.

“Non vollio te. Vollio la mamma.”

Evidentissime richieste di attenzione nei miei confronti. Arrivavano puntuali ogni volta che io ero occupata con il Patato.

Fantasticavo sul complesso edipico che non doveva tardare ancora molto. Sognavo di poter delegare tutto al papà, finalmente. Agognavo quel “non vollio te”, che mi avrebbe liberata da tante rotture di palle.

Nell’attesa cercavo di accontentarla come potevo. Mi sono trasformata in una specie di piovra tentacolare (e lo sono tuttora). Con il Patato attaccato alla tetta, imboccavo lei o le leggevo un libretto. Tenevo entrambi in braccio con abilità da equilibrista.

Spesso mollavo il Patato al suo destino, santo di un secondogenito. Non accorrevo quasi mai al suo primo vagito se ero impegnata con lei. Interrompevo brutalmente la poppata per correre a coccolare lei se si era appena svegliata e minacciava la luna storta. Lo lasciavo con il pirulino al vento, se lei reclamava la mia presenza durante il cambio di pannolino.

L’ora della nanna di lei coincideva sempre con l’ultima poppata di lui. Ma visto che la Bubi non accettava nemmeno di farsi mettere il pigiamino dal papà, dovevamo ingegnarci a far pazientare il Patato finché lei non si addormentava. E sempre più spesso il tempo si dilavava. Con le scuse più banali.

Si potrebbe dire che trascuravo lui per non far sentire trascurata lei.

Ma mentre il Patato cresceva più felice e sereno che mai, la Bubi si stava infilando nella quarta fase. La più temibile.

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Di gelosia non ce n’è una sola. La seconda fase: idillio apparente

Fortuna che il Patato era tale.

Perché una volta nato lui, la Bubi si è resa conto che la sua vita non era cambiata granché. Il fratellino dormiva, tanto. Piangeva, piano. Mangiava, a volte. Il periodo natalizio era decisamente favorevole. Tanti regali, tanta gente per casa, tutti che festeggiavano lei. Deliziosa nella sua veste di “quella grande”. Orgogliosa di quel piccolo essere che riposava nella culla.

Il fatto che il Patato ciucciasse la tetta non le creava grossi problemi. Una volta la Bubi provò anche ad assaggiare il mio latte. Il suo silenzio era eloquente. Non osava dirmi che faceva schifo, sembrava non volesse offendermi. Ma subito dopo aver bevuto una tazza di latte di mucca, sparò una delle sue mitiche uscite: “Questo è buono! Quello della mamma no! Piace solo al Patato.”

Tutto ciò succedeva di giorno. Di notte invece era un dramma. Se la Bubi si svegliava e mi “beccava” con il fratellino attaccato, eran dolori. Urlava finché non lo staccavo e non prendevo lei. A quel punto urlava lui, povero cucciolo affamato, e il Papais difficilmente riusciva a calmarlo. Finiva che lo riattaccavo scatenando di nuovo le ire di lei. Una catena.

Con il passare dei giorni però la routine della nanna tornò quella di prima. La Bubi ricominciò ad addormentarsi serena, senza manina e senza incubi notturni. Un vero idillio. Addirittura, se capitava che lo sentisse piangere nella delicata fase pre-nanna, aveva il coraggio di dirmi: “Vai dal Patato, mamma. Piange. Io sto qui e faccio le nanne”. E si addormentava sul serio.

Ogni volta che succedeva dei grossi lacrimoni mi rotolavano giù dagli occhi. Quale sorellina arriva a tanto? Che bambina stupenda. E noi? Quali genitori sono così in gamba? Che geni della psicologia infantile.

Ma la terza fase ci aspettava dietro l’angolo. Inesorabile come le scadenze del fisco.

Mamma con il gesso, parto di successo

Tanto per presentarmi sappiate che ho partorito con una caviglia rotta.

Ora ne sono certa. Tutti i miei amici e conoscenti davanti a me si sono profusi in “poveriiiiina!!”, ma alle mie spalle si sono fatti quintali di grasse risate.

Nono mese di gravidanza. Una figlia di due anni in piena crisi regressiva. Il corso di ginnastica in acqua a cui arrivavo costantemente in ritardo. Quando la Bubi si è impuntata che non voleva scendere le scale da sola, non ci ho pensato sopra più di tanto. Mi sono caricata in braccio i suoi tredici chili. Che sommati alla borsa di nuoto facevano sedici. Che sommati alla mia panza facevano trenta.

Morale. Sono ruzzolata dalle scale e in un nano secondo mi sono ritrovata gambe all’aria come una cimice capovolta. La Bubi ok. Il Patato nel pancione ok. La mia caviglia no, anche se me ne sono accorta diverse ore dopo, concentrata com’ero a tranquillizzare la poverina. Che era terrorizzata dalla caduta, ma anche dal fatto che la sua mamma si trascinava come un marine per raggiungere la porta di casa e il telefono (il cellulare chiaramente l’avevo dimenticato dentro).

Ho passato le due settimane successive in apnea.

Potevo spostarmi solo usando le stampelle. Dopo due giorni avevo i bicipiti di Yuri Chechi.

Per salire al piano di sopra di casa nostra dovevo girarmi di schiena, sedermi sui gradini e far leva sulle braccia senza minimamente sforzare il piede. Ma lavorando sempre di bicipiti.

Nel frattempo la crisi regressiva della Bubi aveva raggiunto livelli da record. Si addormentava solo con noi nel lettone. E siccome la signorina ha l’abitudine di dormire al contrario, passavo la notte sperando che non desse capocciate al mio gesso.

Il Patato ha deciso che era il Momento in piena notte. Quando mi hanno visto arrivare traballante sulle stampelle, anche le infermiere e le ostetriche si sono fatte le loro grasse risate alle mie spalle. Ridevano di meno in pieno travaglio, quando il mio gesso sfiorava pericolosamente le loro tempie.

Alla centoventesima che mi chiedeva “ma come hai fatto a farti male?”, ho risposto “sciando”. Stava per chiamare i servizi sociali e dare in adozione il povero Patato appena sfornato.