Big and Small

Già lo sapevo, mannaggia a loro.

Era già successo con la Bubi e quindi ero preparata, al contrario di Bismama.

Proprio per questo le ho sfoggiate per tutta l’estate. Il Papais ne voleva fare un calco in gesso.

Troppo tardi.

Mi stanno ormai abbandonando.

Non tutte e due insieme però. Una alla volta. Maledette.

Erano due gloriose e floride Big. Ora sono una Big in declino e una decisamente Small in caduta libera.

La differenza tra le due si vede. Eccome. Soprattutto se insisto con le scollature vertiginose negando l’evidenza.

Cosa devo fare? Cotone? Imbottitura? N’ascella sì e n’ascella no?

Questa volta si accettano consigli.

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Storie di latte di primo pelo (parte III)

Perché a volte basta la parola.

Evviva il biberon. Ora sì che si ragiona. La Bubi mangia. Io respiro. Io dormo. DORMO. E i capezzoli ringraziano.

Ogni tanto mi attaccavo ancora al tiralatte. Ma sempre meno e di malavoglia. Era così comodo darle il biberon. Finalmente riuscivo anche a godermi quella piccola creatura appena nata. Occupata com’ero con il dolore alle tette, e la spremitura, e la bilancia, non mi ero neanche resa conto della meraviglia che avevo partorito.

Poi viene a trovarmi Sara. E’ un’amica medico e una mamma, prima di tutto. Ma fa parte anche del gruppo di auto-aiuto per l’allattamento. Le racconto dell’incontro con il PPDM il Peggior Pediatra del Mondo. Lei mi ascolta.

E poi mi dice: E’ un peccato se tu rinunci ora. Hai quasi un mese per recuperare. Se vuoi puoi farlo.

Io: Guarda, non ho latte. Ho messo mia figlia alla fame. Non esce niente dal tiralatte.

Lei: Il tiralatte non dà la stessa stimolazione che dà il bambino. Non è detto che quello che esce con il tiralatte sia quello che il tuo seno produce. Fammi vedere come attacchi la Bubi.

Io: No, guarda, mi sono appena guarite le ragadi. Ho male solo al pensiero.

Lei: Dai. Fammi vedere.

Su sua insistenza, la attacco. Lei guarda, attenta, dolce. Mi dà qualche consiglio sulla posizione. Mi spiega come staccarla (si può anche staccare? davvero?) con l’indice nell’angolo della bocca. Mi passa il nome delle coppette rigide che danno un po’ di sollievo al capezzolo. Mi dice che è matematico, più attacco la bambina più il latte arriverà. Mi tranquillizza. Mi coccola. Mi dà il numero di Alba, la responsabile del gruppo.

Primo pensiero. Ma che scassapalle. Cosa vuole questa? Ora che son tranquilla, che ho raggiunto un certo tran tran arriva lei a scombinarmi di nuovo le carte in tavola?

Secondo pensiero. In fondo non mi fa più così male. Perché non tentare?

Ho tentato. Il resto l’ho raccontato qui.

Non so se la Bubi sarebbe diversa se non avessi tenuto duro. Non sono assolutamente una fanatica e sono sicura che i bimbi crescano benissimo anche con il biberon. Ma sono fiera di aver tentato. Orgogliosa di averla nutrita con il mio latte. Felice del legame speciale che si è creato tra di noi.

Ho una laurea che non uso. Nessuna carriera che si possa definire tale. I sogni di gloria che avevo a 25 anni si sono suicidati per assenza di stimoli. Questa piccola vittoria è una mia personalissima soddisfazione.

Forse la Bubi non sarebbe diversa.

Di sicuro sarei diversa io.

Storie di latte di primo pelo (parte II)

Meglio soli che mal accompagnati?

I dolori del parto mi sembravano niente in confronto al male alle tette. Non sono riuscita a trovare un paragone per farlo capire al Papais. Erano stilettate feroci ogni volta che attaccavo la Bubi.

Non riuscivo a credere che si potesse allattare con gioia. Io non c’ero portata. Non faceva per me. Al pensiero di riattaccarla già mi irrigidivo e mi contraevo. Assumevo posizioni sbagliate. Pensavo al male. E probabilmente glielo trasmettevo. Perché sono convinta che i bambini non bevano solo il latte. Ma si nutrano anche di tutte le tensioni e le paure della mamma.

E infatti la Bubi era nervosa. Piangeva tanto. Di notte. Di giorno. Appena si svegliava urlava. Quando con fatica riuscivo ad attaccarla, non si staccava più. Stava anche un’ora a ciucciare. Non osavo nemmeno andare in bagno, per non doverla staccare e sentirla urlare di nuovo.

In ospedale mi avevano detto che tutto andava bene. Perché piangeva allora? Che ne sapevo che non si stava attaccando in modo corretto? Che appendendosi alla sola punta mi torturava soltanto senza prendere il giusto nutrimento? E senza stimolare la produzione di latte? Ok, l’avevo letto. Avevo visto la figura. Ma da qui ad applicarla al mio caso ce ne correva.

Provavo di tutto per farmi passare il male ai capezzoli. Spalmavo creme di ogni genere e tipo. Applicavo garze cicatrizzanti. Ascoltavo i consigli della nonna, della cugina, della vicina di casa. Non serviva a niente. Appena riattaccavo la creatura, le ferite si riaprivano con sommo piacere. In pieno inverno giravo per casa a seno nudo. Ma il freddo mi faceva indurire i capezzoli ed eran di nuovo dolori.

Una notte la Bubi si stacca e mi guarda fisso. Con il sangue che le cola giù dalla bocca. E’ stato come stappare una diga strapiena. Le lacrime hanno cominciato a uscire a fiotti. Piangevo e piangevo.

Compriamo i paracapezzoli, degli aggeggi di plastica che avrebbero dovuto proteggermi dalle voraci gengive della creatura. Niente di più sbagliato. Le ferite si riaprivano esattamente come prima. Ma la Bubi ingurgitava più aria che latte. Sembrava che avesse coliche. Urlava come una pazza tirando le gambette. Non c’era modo di calmarla. A pancia in giù sul braccio mio o su quello del Papais sembrava funzionasse. Ma ci voleva anche il movimento. E allora giù a macinare chilometri in giro per casa.

Dico al Papais di noleggiare un tiralatte. Volevo evitarla quella macchina infernale. Ma non riuscivo più ad attaccare la piccola. Era diventato un inferno. Comincia la spremitura. Non esce niente. Attendo ancora. Dopo circa un’ora di mungitura avevo prodotto solo 20 ml.

E’ stato il panico.

La Bubi non sta piangendo per le coliche. Non sta piangendo perché è nervosa. Sta piangendo per la fame. Ed è tutta colpa mia.

La pesiamo. Ci avevano detto di farlo una volta a settimana. Di non stressarci con doppie pesate o cose del genere. E’ dimagrita. Parecchio. E mo’ che facciamo?

Cosa fanno in questa situazione due genitori totalmente inesperti, soli, e per di più di sabato pomeriggio? Corrono in pronto soccorso, è ovvio. Peccato che fosse di turno il PPDM il Peggiore Pediatra del Mondo.

Il PPDM ci ascolta con aria di sufficienza. Come due perfetti idioti. Visita la piccola. E dà il suo verdetto.

“Signora. Il suo latte sta finendo. Comprate l’artificiale. Ce ne sono tanti in commercio”.

Il PPDM non sapeva che a due settimane dal parto i giochi non sono assolutamente chiusi? Che ci sono donne che hanno ripreso ad allattare anche dopo aver interrotto completamente? Il PPDM non ha pensato di controllare come la madre piangente attaccasse la bambina? Non ha fatto qualche cavolo di corso di comunicazione per capire come parlare ad una mamma fragilissima e in pieno baby blues? Non poteva chiamare una cavolo di collega con un minimo di preparazione in più sull’allattamento?

No.

Il PPDM dà il suo verdetto. E noi torniamo a casa odiandolo di tutto cuore, ma convinti che l’artificiale sia l’unica soluzione.

Storie di latte di primo pelo (parte I)

Le perverse nurse entrano in azione.

Chessaramai offrire la tetta a un pupo. Lui ciuccia e il latte esce, no? Questo è più o meno quello che pensano tutte le mamme al primo figlio.

E questo è il racconto dettagliato di quello che è successo a me con la Bubi (ne ho già parlato un po’ qui, ma ora ho deciso di dilungarmi al punto che ho dovuto dividere il racconto in tre parti).

Stordita e innamorata, con l’inferno tra le gambe, osservavo quell’essere perfetto che riposava nella culletta trasparente dell’ospedale. Non le toglievo gli occhi di dosso. Non ci riuscivo proprio.

E lei dormiva. Dormiva e basta. Per le sue prime 30 ore di vita non ha fatto che dormire. Qualche volta apriva gli occhietti rugosi da vecchio saggio. Sembrava mi fissasse con tutta la stanchezza del mondo. Le bastava una carezza sul viso per riprendere a dormire.

Poi mi dicono: Ha provato ad attaccarla? Io: No. Sta dormendo. E loro: Eh, la deve svegliare.

Già c’aveva sonno. In più c’aveva una mamma imbranata. Morale. “Difficoltà di attacco”.

Ero totalmente inetta. Mi mettevo di fianco. Distesa. Ci provavo a darle il capezzolo. Ma alla fine dovevo chiamare le nurse ogni volta per farmi aiutare.

“Lei ha il capezzolo piccolo. Bisogna sagomarlo un poco”.

Sagomarlo voleva dire torcerlo tra pollice e indice e ficcarlo nella bocca dell’infante con sadismo degno di Freddy Krueger. Lo facevano loro, le perverse nurse, al posto mio. La tenera pelle del mio capezzolo da adolescente cominciava già a sgretolarsi.

“Tenga il seno all’aria. Ci spalmi sopra un po’ di colostro. Vedrà che passa”.

Estiqaatsi. Il male non passava. Anzi.

“Proviamo con il tiralatte”.

La prima volta che mi sono attaccata a quell’aggeggio infernale mi sentivo un po’ come un limone già spremuto al quale si cerca di cavare le ultime gocce. Non usciva un accidenti di niente.

Io: Ma quanto ci devo stare? Loro: Basta un quarto d’ora per seno.

Facciamo mezz’ora, dai. In totale un’ora di lieta tortura. Alla fine avevo ottenuto un paio di millilitri di un liquido giallo scuro. Che ne faccio di queste goccette? Mah.

Loro: Allora? Io: Eh, è uscito solo pochissimo. Loro: E dov’é? Io: Come dov’è? L’ho buttato via.

Avevo gettato nel lavandino il preziosissimo colostro, fonte di nutrimento indispensabile per il neonato nelle sue prime ore di vita. Mi avevano dato un biberon da 250 ml. Io, nella mia assoluta ignoranza, ero convinta di doverlo riempire tutto. Nessuno mi aveva detto che ne usciva pochissimo. E che ne bastava pochissimo. Sadiche bastarde.

La Bubi si attaccava. Si staccava subito. Si arrabbiava di brutto. Muoveva la testa come una forsennata cercando la tetta. Se la trovava, si aggrappava con le gengive alla punta. E io vedevo le stelle.

Io: Ma è normale che faccia così male? Loro: Eh, sì. Voi mamme di oggi non siete abituate al dolore.

Estiqaatsi.

La Bubi cominciava a recuperare un po’ di peso. Io riuscivo qualche volta ad attaccarla senza l’intervento delle perverse nurse. Ma ero goffa, impacciata, rigidissima. Dovevo avere il cuscino da allattamento ben sistemato, lo sgabellino per rialzare le gambe, la poltrona comoda. Sennò non ci riuscivo. E la Bubi non doveva essere troppo arrabbiata. Cosa molto rara, visto che la poverina cominciava a svarionare di brutto per la fame.

Ma era tutto nella norma secondo loro. Via, a casa, avanti il prossimo. Ci telefoni se ha problemi.

Problemi? Ne ho una caterva di problemi. Tra le congratulazioni e i regalini ho i capezzoli in fiamme, non riesco nemmeno a farmi il bidet e mi viene tanto da piangere. Ma va tutto bene. Tutto bene.

Di gelosia non ce n’è una sola. La terza fase: piccole regressioni crescono

Quando l’Edipo non c’è, la mamma diventa piovra.

Quando la Gelosia si è riaffacciata alla nostra porta, avevamo ormai sbandierato a mezzo mondo che “No, la Bubi non è gelosa!”. Infatti stava solo cominciando una serie di piccoli segnali.

La Bubi non mangiava più da sola. O meglio. Non mangiava da sola quando c’ero io presente. Il Nonnoprof e la Nonnaiaia mi assicuravano che quando andava da loro si arrangiava senza fiatare. Ma con la mamma doveva essere imboccata.

La Bubi giocava a fare la “bimba piccola”. Si sdraiava nella culla. Faceva “ué ué ué”. Faceva finta di ciucciare al seno. Oppure giocava alla mamma con i suoi pupazzi. Imitava alla perfezione i nostri atteggiamenti con il Patato. Parlava come noi. Si muoveva come noi. Faceva addirittura le stesse espressioni del viso.

La Bubi voleva la mamma. Sempre. Per fare le cose più elementari c’era bisogno di me. Per lavare le manine. Per vestirsi. Per cambiare il pannolino. Per andare a prenderla nel lettino la mattina.

Il Papais, più paziente che mai, ci provava ogni volta.

“Non vollio te. Vollio la mamma.”

Evidentissime richieste di attenzione nei miei confronti. Arrivavano puntuali ogni volta che io ero occupata con il Patato.

Fantasticavo sul complesso edipico che non doveva tardare ancora molto. Sognavo di poter delegare tutto al papà, finalmente. Agognavo quel “non vollio te”, che mi avrebbe liberata da tante rotture di palle.

Nell’attesa cercavo di accontentarla come potevo. Mi sono trasformata in una specie di piovra tentacolare (e lo sono tuttora). Con il Patato attaccato alla tetta, imboccavo lei o le leggevo un libretto. Tenevo entrambi in braccio con abilità da equilibrista.

Spesso mollavo il Patato al suo destino, santo di un secondogenito. Non accorrevo quasi mai al suo primo vagito se ero impegnata con lei. Interrompevo brutalmente la poppata per correre a coccolare lei se si era appena svegliata e minacciava la luna storta. Lo lasciavo con il pirulino al vento, se lei reclamava la mia presenza durante il cambio di pannolino.

L’ora della nanna di lei coincideva sempre con l’ultima poppata di lui. Ma visto che la Bubi non accettava nemmeno di farsi mettere il pigiamino dal papà, dovevamo ingegnarci a far pazientare il Patato finché lei non si addormentava. E sempre più spesso il tempo si dilavava. Con le scuse più banali.

Si potrebbe dire che trascuravo lui per non far sentire trascurata lei.

Ma mentre il Patato cresceva più felice e sereno che mai, la Bubi si stava infilando nella quarta fase. La più temibile.

Di gelosia non ce n’è una sola. La seconda fase: idillio apparente

Fortuna che il Patato era tale.

Perché una volta nato lui, la Bubi si è resa conto che la sua vita non era cambiata granché. Il fratellino dormiva, tanto. Piangeva, piano. Mangiava, a volte. Il periodo natalizio era decisamente favorevole. Tanti regali, tanta gente per casa, tutti che festeggiavano lei. Deliziosa nella sua veste di “quella grande”. Orgogliosa di quel piccolo essere che riposava nella culla.

Il fatto che il Patato ciucciasse la tetta non le creava grossi problemi. Una volta la Bubi provò anche ad assaggiare il mio latte. Il suo silenzio era eloquente. Non osava dirmi che faceva schifo, sembrava non volesse offendermi. Ma subito dopo aver bevuto una tazza di latte di mucca, sparò una delle sue mitiche uscite: “Questo è buono! Quello della mamma no! Piace solo al Patato.”

Tutto ciò succedeva di giorno. Di notte invece era un dramma. Se la Bubi si svegliava e mi “beccava” con il fratellino attaccato, eran dolori. Urlava finché non lo staccavo e non prendevo lei. A quel punto urlava lui, povero cucciolo affamato, e il Papais difficilmente riusciva a calmarlo. Finiva che lo riattaccavo scatenando di nuovo le ire di lei. Una catena.

Con il passare dei giorni però la routine della nanna tornò quella di prima. La Bubi ricominciò ad addormentarsi serena, senza manina e senza incubi notturni. Un vero idillio. Addirittura, se capitava che lo sentisse piangere nella delicata fase pre-nanna, aveva il coraggio di dirmi: “Vai dal Patato, mamma. Piange. Io sto qui e faccio le nanne”. E si addormentava sul serio.

Ogni volta che succedeva dei grossi lacrimoni mi rotolavano giù dagli occhi. Quale sorellina arriva a tanto? Che bambina stupenda. E noi? Quali genitori sono così in gamba? Che geni della psicologia infantile.

Ma la terza fase ci aspettava dietro l’angolo. Inesorabile come le scadenze del fisco.

Le mamme che invidio (Parte seconda)

Tutte le cose che mamma Giulia continua a non riuscire a fare.

Invidio e ammiro con assoluta sincerità le mamme che usano i pannolini lavabili. Ne guadagna l’ambiente e ne guadagna il culetto dei loro bambini. Io mi son lasciata banalmente scoraggiare dall’idea delle mille lavatrici da fare. Già non riesco a star dietro a quelle normali.

Invidio le mamme che hanno una stanza per i giochi. Da noi i giocattoli della Bubi hanno invaso con sistematicità ogni angolo di casa. E dire che il Patato non sta ancora contribuendo.

Invidio le mamme che fanno splendide acconciature alle loro bambine. Mi accontenterei anche di semplici codini. Quando ci provo, la Bubi fugge inferocita, manco le avessi proposto la cicuta. Come al solito il discorso l’ha chiuso brillantemente il Papais: “I capelli son suoi, li tiene come vuole”. Parole sante.

Invidio le mamme che hanno insegnato ai figli a stare composti a tavola. Da quando abbiamo tolto la barriera al seggiolone Stokke, la Bubi scorrazza come una scimmia da una sedia all’altra, quando non cerca di arrampicarsi sulla tavola. Il più delle volte mangia reggendosi con una gamba sola sul bordo del poggiapiedi.

Invidio le mamme che riescono a mettere a nanna i loro figli contemporaneamente. Le poche volte che ci ho provato, siamo finiti uno sopra l’altro sul lettone. Il Patato agganciato alla tetta e la Bubi accovacciata sulle mie cosce. Alla faccia di Estivill e di “Fate la nanna”.

Invidio le mamme che si fidano del loro istinto. E’ la migliore delle strategie, che nessun libro può insegnare. Io la sto imparando a poco a poco.

Invidio le mamme calme, che non perdono la pazienza, che applicano sempre e comunque il metodo dell’empatia. E’ un periodo un po’ difficile per la mia Bubi, ne parlerò presto in un post. Mi sta davvero mettendo alla prova e la pazienza la perdo, eccome se la perdo.

Storie di latte e di fortuna

Sono convinta che allattare dipenda dalla fortuna, ma dalla fortuna di incontrare le persone giuste al momento giusto.

Con la Bubi l’ho avuta, questa fortuna.

Dopo che le infermiere mi avevano torturato per giorni i capezzoli nel vano tentativo di attaccare la recalcitrante creatura. Dopo che perfino il tocco della camicia da notte sul seno mi faceva saltare dal dolore. Dopo che ho visto il sangue uscire dalla bocca della mia Bubi (il sangue, sì, come dalla bocca di un piccolo vampiro affamato). Dopo aver stramaledetto tutte le mamme che vedevo allattare con gioia e piacere. Dopo le ore passate sul tiralatte invece di dormire (che ricordi quella macchina infernale, quel rumore diabolico nel silenzio della notte). Dopo le lacrime versate davanti al pediatra al quale avevo affidato la mia bambina, dimagrita e urlante. Dopo i biberon di latte artificiale, che finalmente mi sembravano la salvezza.

Dopo tutto questo ho incontrato Alba e Sara, due volontarie del gruppo di auto-aiuto per le mamme in allattamento. Le persone giuste al momento giusto. Non mi hanno proposto regole, dogmi, capitoli da leggere. Senza fanatismi e con infinita dolcezza, mi hanno dato consigli pratici. Pratici, accidenti, perché è di questo che si ha bisogno quando non si sa nemmeno come vestirla, la creatura.

Ho iniziato a indossare le coppette rigide (tipo queste). Sembravo la moglie di Mazinga, ma mi davano tanto sollievo. Ho ricominciato ad attaccare la Bubi, rigorosamente prima del biberon. Ma non per un’ora, come facevo prima. 20 minuti da una parte e 20 dall’altra. Ho iniziato a fidarmi del mio istinto, a capire quanto biberon proporle dopo la poppata o se non proporglielo affatto. Ho letto testimonianze e consigli di altre mamme, soprattutto da La Leche League. E mi sono convinta che forse ce la potevo fare anche io.

Morale. Compiuti i tre mesi la Bubi era allattata esclusivamente al seno. Non mi sono privata dell’immenso piacere di crescere la mia bimba con il mio latte.

Non finirò mai di ringraziarle, Alba e Sara.

Riflessioni semiserie sull’allattamento

Nessuno te lo spiega ai corsi pre-parto.

Ma intendiamoci. Allattare è una bella rottura.

Intanto, almeno all’inizio, fa male. A meno che le vostre tette non siano già temprate da prestazioni sessuali estreme, i capezzoli si arrossano, si screpolano e, nella peggiore delle ipotesi, sanguinano, sotto l’azione della vorace creaturina. Poi, per le miopi come me, l’allattamento è un vero bagno di sangue. La creatura non ciuccia solo latte, ciuccia diottrie come un’idrovora. E l’odore. Te lo porti dietro dappertutto. Quell’odore di siero di mozzarella scaduta. E infine, dopo che l’hai atteso per nove lunghi mesi, non puoi ancora dormire a pancia in giù. Perché al posto delle tette hai due meloni doloranti e duri come sassi.

Ve lo confesso, però. Non potrei mai rinunciarci.

La sensazione di quella manina calda e grassottella sul mio seno. Mi stringe, mi tiene, mi abbraccia.

Quello sguardo adorante, gli occhi fissi su di me, talmente grandi e profondi che ci potrei annegare dentro.

Il suo corpicino completamente abbandonato sul mio. Potrebbe cadere un palazzo, ma lui resterebbe lì a ciucciare. Sicuro. Tranquillo. Sereno. Quando lo allatto, io sono il suo mondo. Il suo unico mondo.

E poi l’immenso, smisurato orgoglio che si prova quando ti senti chiedere “Com’è cresciuto! Prende solo il tuo latte?”. Ti verrebbe da urlarlo al mondo: “Sììììììììììì! IO l’ho messo al mondo e IO lo sto facendo crescere! Solo io!”

La Bubi va in piscina

Se io amo l’acqua, l’amerà anche lei.

Ho iscritto la Bubi ad un corso di acquaticità. A quelli a cui di solito si portano i neonati.

Avevo fatto un tentativo a cinque mesi. Ma che volete. Il cloro le faceva esplodere la dermatite. Lo sbalzo di temperatura le scatenava la bronchite. Ho rinunciato.

Complice la maternità, ci ho riprovato quest’anno. Ovviamente mi son presa tardi e i corsi riservati ai duenni erano ormai pieni. Ho scoperto solo dopo che è stato meglio così. I coetanei della Bubi già si lanciano in tuffi carpiati dal bordo.

Lei, l’acqua, la odia.

Però l’avevo pensata proprio bene. Doveva essere un momento piacevole e sereno, un paio d’ore solo io e lei. Per me la piscina ha il sapore inconfondibile delle pizzette del bar che ci divoravamo a fine lezione, soddisfatti e felici. Volevo creare anche per lei un piccolo rituale. Il succo di frutta mentre ci si asciuga i capelli, la banana e i Pavesini una volta usciti, mentre si chiacchiera delle imprese compiute in acqua.

Questo rituale le è piaciuto moltissimo. Anche troppo.

Dopo soli cinque minuti in vasca, inizia la cantilena: “Usciamo, mamma? Voglio il succo. Voglio la banana e i biscotti”.

E io, ostinata: “Dai guarda che bel gioco quello”.

Un neonato di cinque mesi lo puoi anche cacciare a testa sotto senza che se ne accorga. Una bimba di due anni coglie le tue intenzioni prima ancora di cominciare. Appena le maestre si avvicinano per approcciare qualche esercizio, la Bubi si irrigidisce e mi si aggrappa come un koala al suo eucaliptus.

“Usciamo mamma?”

Finire la lezione diventa un’impresa. Come anche cercare di evitare lo sguardo accusatorio delle maestre.

“Usciamo mamma?”

Fuori dalla vasca mi aspettano, nell’ordine. La fila per la doccia. Le urla a duemila decibel della Bubi mentre cerco di lavarle i capelli. Il caldo tropicale nello spogliatoio stipato di mamme agitate e bambini stanchi.

A casa mi aspetta un Patato arrabbiatissimo perché il biberon che avevo lasciato al nonno non è esattamente come la tettina della mami. E la sera, inconfondibile, quell’orrenda sensazione di ingorgo mammario. Chiaro, il Patato ha saltato una poppata, il latte si intasa.

Ma io persevero. L’acqua prima o poi le piacerà. Deve piacerle.