I Bubini vanno in fattoria

Sabato siamo andati alla fattoria di Giuseppe.

 

E’ un amico di mamma e papà, con le mani grandi e il sorriso grande. Lavora in ospedale con i malati, ma nei ritagli di tempo aiuta suo papà e suo fratello nella loro fattoria.

E’ una fattoria vera, eh, mica come quella finta che ci hanno fatto vedere con la scuola.

Questa è vera verissima.

Hanno cavalli, cani, gatti, rondini, maiali, e tante, tante, ma tante mucche.

Non ne avevo mai viste così tante tutte insieme. Facevano un po’ impressione. Per fortuna che almeno gli tagliano le corna.

In mezzo a tutte quelle mucche c’era un solo toro. Si chiamava Giorgio. Lui era veramente enorme. Stava lì tranquillo a farsi fare le coccole da sua moglie.

E poi c’erano anche i vitellini appena nati. Il Bubino quando li ha visti lanciava gridolini di gioia. Ma la più gasata di tutti era la mamma. Non l’avevo mai vista così emozionata. Si è fatta ciucciare l’intera mano dai vitellini. Gliel’hanno riempita di bava. A me faceva piuttosto schifo. E invece la mamma era lì che rideva tutta intenerita.

Abbiamo visto anche come fanno il latte.

Alle mucche attaccavano dei cosi alle tette e poi usciva tantissimo latte. Una mucca se li è cavati via con un calcio. Si vede che le facevano prurito. Giuseppe svelto svelto gli ha riattaccato i cosi, che sennò usciva tutto il latte per terra.

Io dopo un po’ volevo andare via da dove mungevano. Anche perché due mucche hanno fatto la pipì. E, credetemi, era davvero tanta.

Invece la mamma era sempre più gasata. Si è messa a parlare di quando allattava lei. Usava strane parole tipo “ragadi” e “mastite” ed continuava a ripetere “come le mucche, come le mucche!”. E poi ha voluto anche mungerne una a mano. Aveva gli occhi lucidi. Giuro.

Quando siamo uscite il Bubino era sopra il trattore e gridava: “Mamma, Bubi! Toe toe!”. Faceva finta di guidare ed sembrava davvero il bambino più fiero del mondo.

Prima di andare via Giuseppe ci ha mostrato come si pulisce la stalla.

C’è una specie di braccio meccanico che trascina tutto lo sporco e lo fa finire in un tubo. Il tubo corre corre fino a una piscina grandissima.

Una piscina di cacca.

Era molto interessante questa piscina.

L’ho guardata proprio da vicino.

Ci ficcherei volentieri Simone, quello che mi ha morso l’ultimo giorno di scuola. E anche suo fratello, ci ficcherei.

Un bel bagno di cacca.

Ecco quello che gli ci vuole.

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Nausea

E’ da diversi giorni che avverto un chiarissimo, fastidioso senso di nausea.

No, no, non sono in stato interessante. Non se ne parla nemmeno. Per carità.

Non è neanche per le crisi da indemoniata che prendono la Bubi in questo periodo. Non riusciamo ancora a capirne il motivo. Lotte di potere. Stanchezza. Capricci. Non sappiamo ancora bene come affrontarle. Ma diobuono, quanta pazienza ci vuole.

La mia nausea non dipende neanche dal Bubino, che ha iniziato a bere il latte vaccino, ma me lo restituisce dopo qualche ora in forma semisolida.

Niente di tutto ciò mi dà la nausea.

E’ solo che ogni tanto leggo i giornali.

Lieti fini

“E’ che mi piacciono i lieti fini!” (Fata Fauna, in “La Bella Addormentata nel Bosco”).

Lo spunto mi è venuto da un bel post di Wonderland (questo, che però si riferiva anche a questo del 2010). E ho pensato di raccontarvi dei miei ultimi Capodanni. Da quando io e il Papais ci siamo nostro malgrado tristemente isolati dall’adorato gruppo di beoni senza figli, abbiamo dovuto inventarci dei fine d’anno, diciamo, alternativi.

2007 – Il Capodanno geriatrico

La Bubi di due mesi. Due coppie di amici comprensivi (rigorosamente senza figli) venuti a cenare da noi. Cena sciccosa con varie portate. Io, ricoperta per 7 giorni su 7 dalla tutona macchiata di rigurgito, per l’occasione ero inguantata in un tubino aderente. Peccato che dal tubino aderente mi uscisse la panza post-partum da tutte le parti. Peccato che dopo qualche ora il tubino aderente si fosse vergognosamente bagnato sulle tette. Peccato che a fine serata lo stesso tubino aderente si fosse trasformato in un tappeto di vomitini. La cena bene. Il dopo cena un po’ meno, visto che la più sveglia di tutti era proprio la Bubi. Che all’epoca non si addormentava mai prima delle 2-3 di notte. Finiamo la serata sbadigliando davanti ad un film. Vagheggiando sulle prodezze degli amici beoni in montagna.

2008 – Il Capodanno staffetta

Il Papais al cenone fino alle 23.30. Poi un veloce brindisi insieme a mezzanotte. E poi via da sola in macchina, sotto una nevicata che non si vedeva dall’Ottantanove. Il Gugli-deejay in forma. Le amiche in tiro. L’alcool finalmente disponibile visto che l’allattamento è graziaddio finito. Nottata super. Rientro tragico. La Bubi in piena crisi di mammite. Io che puzzo di fumo e di vino e mi sento l’emblema della mamma degnere.

2009 – Il Capodanno privé

A casa nostra. Con il Bubino arrivato da due settimane. Un piede ingessato. La Bubi felicemente scopertasi sorella maggiore. Il Papais teneramente prodigo di gentilezze. Un bijoux.

2010 – Il Capodanno della svolta

La festa non sarà stata memorabile come le tante passate con gli amici beoni. Sarà anche vero che non abbiamo ballato, non abbiamo bevuto, non abbiamo fatto il count-down abbracciati e ubriachi. Ma quello del 2010 per me è stato il Capodanno della svolta.

Perché festeggiare l’ultimo raccontando storie ai bambini mi è piaciuto da morire.

Perché giocare insieme a loro è stato fisicamente più impegnativo di una serata rock.

Perché vederli collassare sul divano uno sopra all’altro è stato assai più divertente che assistere gli amici sbronzi.

Perché brindare ai primi passi del Bubino, quello sì, è stato davvero memorabile.

Perché sto lentamente completando la trasformazione.

Da strana crisalide ibrida che invidia ferocemente le amiche senza figli (quelle coi tacchi, quelle con la biancheria intima giusta, quelle in forma, quelle in carriera, quelle che flirtano, quelle che escono agli aperitivi, alle cene, ai dopocena, e agli “ultimi”), sto diventando davvero una mamma.

E sapete cosa vi dico?

Mi piaccio così.

Illudersi mai

Non me ne sono mai vantata.

Dicevo che era buono, quello sì. Ma sempre con le mie brave corna su entrambe le mani. E aggiungevo anche un “per adesso”. Sempre.

E’ vero però. A volte l’ho spacciato per merito nostro. Eh, sai, l’esperienza con la prima figlia. Eh, sai, i secondi son sempre più buoni. Eh, sai, è tutto perché i genitori son più tranquilli.

Cazzate.

L’unica cosa vera è che questi esseri strani che chiamiamo bambini cambiano con una velocità disarmante. Quella che un attimo prima sembrava una routine consolidata viene travolta e calpestata dalla sera alla mattina. Quel che è peggio è che accade senza alcuna spiegazione plausibile.

Il Patato era – appunto – un Patato. Finché non ha iniziato a gattonare. E’ come se fosse esplosa una diga. La sua curiosità e il suo entusiasmo, prima contenuti dalle sue fattezze da neonato, sono tracimati. E’ fenomenale. Arriva dappertutto e prende qualsiasi cosa. Si appende. Si arrampica. Si allunga. A nemmeno 9 mesi gli riescono prodezze che la Bubi a un anno tentava a malapena.

Non sta mai fermo. Nè di giorno. N E’  D I N O T T E .

Ecco il punto. Ecco la trasformazione che temevo come la peste bubbonica. Ecco il crollo del castello di carte che mi ero costruita con i miei riti della nanna. Sai dove me li ficco adesso gli Estivill e i Tracy Hogg? Le provo tutte. Ripeto shhhhhh shhhh shhhhhhhh fino ad azzerarmi la salivazione. Insisto con il ciuccio anche se lui me lo lancia addosso. Mi carico in braccio i sui 11 chili e macino chilometri per casa. Ricorro anche alla cara vecchia Big, che imperterrita continua a produrre latte contro ogni previsione. Ma c’è un’unica cosa che il Patato vuole.

Giocare.

Alle 3 del mattino.

E alle 4.

E alle 5.

Big and Small

Già lo sapevo, mannaggia a loro.

Era già successo con la Bubi e quindi ero preparata, al contrario di Bismama.

Proprio per questo le ho sfoggiate per tutta l’estate. Il Papais ne voleva fare un calco in gesso.

Troppo tardi.

Mi stanno ormai abbandonando.

Non tutte e due insieme però. Una alla volta. Maledette.

Erano due gloriose e floride Big. Ora sono una Big in declino e una decisamente Small in caduta libera.

La differenza tra le due si vede. Eccome. Soprattutto se insisto con le scollature vertiginose negando l’evidenza.

Cosa devo fare? Cotone? Imbottitura? N’ascella sì e n’ascella no?

Questa volta si accettano consigli.

Storie di latte di primo pelo (parte III)

Perché a volte basta la parola.

Evviva il biberon. Ora sì che si ragiona. La Bubi mangia. Io respiro. Io dormo. DORMO. E i capezzoli ringraziano.

Ogni tanto mi attaccavo ancora al tiralatte. Ma sempre meno e di malavoglia. Era così comodo darle il biberon. Finalmente riuscivo anche a godermi quella piccola creatura appena nata. Occupata com’ero con il dolore alle tette, e la spremitura, e la bilancia, non mi ero neanche resa conto della meraviglia che avevo partorito.

Poi viene a trovarmi Sara. E’ un’amica medico e una mamma, prima di tutto. Ma fa parte anche del gruppo di auto-aiuto per l’allattamento. Le racconto dell’incontro con il PPDM il Peggior Pediatra del Mondo. Lei mi ascolta.

E poi mi dice: E’ un peccato se tu rinunci ora. Hai quasi un mese per recuperare. Se vuoi puoi farlo.

Io: Guarda, non ho latte. Ho messo mia figlia alla fame. Non esce niente dal tiralatte.

Lei: Il tiralatte non dà la stessa stimolazione che dà il bambino. Non è detto che quello che esce con il tiralatte sia quello che il tuo seno produce. Fammi vedere come attacchi la Bubi.

Io: No, guarda, mi sono appena guarite le ragadi. Ho male solo al pensiero.

Lei: Dai. Fammi vedere.

Su sua insistenza, la attacco. Lei guarda, attenta, dolce. Mi dà qualche consiglio sulla posizione. Mi spiega come staccarla (si può anche staccare? davvero?) con l’indice nell’angolo della bocca. Mi passa il nome delle coppette rigide che danno un po’ di sollievo al capezzolo. Mi dice che è matematico, più attacco la bambina più il latte arriverà. Mi tranquillizza. Mi coccola. Mi dà il numero di Alba, la responsabile del gruppo.

Primo pensiero. Ma che scassapalle. Cosa vuole questa? Ora che son tranquilla, che ho raggiunto un certo tran tran arriva lei a scombinarmi di nuovo le carte in tavola?

Secondo pensiero. In fondo non mi fa più così male. Perché non tentare?

Ho tentato. Il resto l’ho raccontato qui.

Non so se la Bubi sarebbe diversa se non avessi tenuto duro. Non sono assolutamente una fanatica e sono sicura che i bimbi crescano benissimo anche con il biberon. Ma sono fiera di aver tentato. Orgogliosa di averla nutrita con il mio latte. Felice del legame speciale che si è creato tra di noi.

Ho una laurea che non uso. Nessuna carriera che si possa definire tale. I sogni di gloria che avevo a 25 anni si sono suicidati per assenza di stimoli. Questa piccola vittoria è una mia personalissima soddisfazione.

Forse la Bubi non sarebbe diversa.

Di sicuro sarei diversa io.

Storie di latte di primo pelo (parte II)

Meglio soli che mal accompagnati?

I dolori del parto mi sembravano niente in confronto al male alle tette. Non sono riuscita a trovare un paragone per farlo capire al Papais. Erano stilettate feroci ogni volta che attaccavo la Bubi.

Non riuscivo a credere che si potesse allattare con gioia. Io non c’ero portata. Non faceva per me. Al pensiero di riattaccarla già mi irrigidivo e mi contraevo. Assumevo posizioni sbagliate. Pensavo al male. E probabilmente glielo trasmettevo. Perché sono convinta che i bambini non bevano solo il latte. Ma si nutrano anche di tutte le tensioni e le paure della mamma.

E infatti la Bubi era nervosa. Piangeva tanto. Di notte. Di giorno. Appena si svegliava urlava. Quando con fatica riuscivo ad attaccarla, non si staccava più. Stava anche un’ora a ciucciare. Non osavo nemmeno andare in bagno, per non doverla staccare e sentirla urlare di nuovo.

In ospedale mi avevano detto che tutto andava bene. Perché piangeva allora? Che ne sapevo che non si stava attaccando in modo corretto? Che appendendosi alla sola punta mi torturava soltanto senza prendere il giusto nutrimento? E senza stimolare la produzione di latte? Ok, l’avevo letto. Avevo visto la figura. Ma da qui ad applicarla al mio caso ce ne correva.

Provavo di tutto per farmi passare il male ai capezzoli. Spalmavo creme di ogni genere e tipo. Applicavo garze cicatrizzanti. Ascoltavo i consigli della nonna, della cugina, della vicina di casa. Non serviva a niente. Appena riattaccavo la creatura, le ferite si riaprivano con sommo piacere. In pieno inverno giravo per casa a seno nudo. Ma il freddo mi faceva indurire i capezzoli ed eran di nuovo dolori.

Una notte la Bubi si stacca e mi guarda fisso. Con il sangue che le cola giù dalla bocca. E’ stato come stappare una diga strapiena. Le lacrime hanno cominciato a uscire a fiotti. Piangevo e piangevo.

Compriamo i paracapezzoli, degli aggeggi di plastica che avrebbero dovuto proteggermi dalle voraci gengive della creatura. Niente di più sbagliato. Le ferite si riaprivano esattamente come prima. Ma la Bubi ingurgitava più aria che latte. Sembrava che avesse coliche. Urlava come una pazza tirando le gambette. Non c’era modo di calmarla. A pancia in giù sul braccio mio o su quello del Papais sembrava funzionasse. Ma ci voleva anche il movimento. E allora giù a macinare chilometri in giro per casa.

Dico al Papais di noleggiare un tiralatte. Volevo evitarla quella macchina infernale. Ma non riuscivo più ad attaccare la piccola. Era diventato un inferno. Comincia la spremitura. Non esce niente. Attendo ancora. Dopo circa un’ora di mungitura avevo prodotto solo 20 ml.

E’ stato il panico.

La Bubi non sta piangendo per le coliche. Non sta piangendo perché è nervosa. Sta piangendo per la fame. Ed è tutta colpa mia.

La pesiamo. Ci avevano detto di farlo una volta a settimana. Di non stressarci con doppie pesate o cose del genere. E’ dimagrita. Parecchio. E mo’ che facciamo?

Cosa fanno in questa situazione due genitori totalmente inesperti, soli, e per di più di sabato pomeriggio? Corrono in pronto soccorso, è ovvio. Peccato che fosse di turno il PPDM il Peggiore Pediatra del Mondo.

Il PPDM ci ascolta con aria di sufficienza. Come due perfetti idioti. Visita la piccola. E dà il suo verdetto.

“Signora. Il suo latte sta finendo. Comprate l’artificiale. Ce ne sono tanti in commercio”.

Il PPDM non sapeva che a due settimane dal parto i giochi non sono assolutamente chiusi? Che ci sono donne che hanno ripreso ad allattare anche dopo aver interrotto completamente? Il PPDM non ha pensato di controllare come la madre piangente attaccasse la bambina? Non ha fatto qualche cavolo di corso di comunicazione per capire come parlare ad una mamma fragilissima e in pieno baby blues? Non poteva chiamare una cavolo di collega con un minimo di preparazione in più sull’allattamento?

No.

Il PPDM dà il suo verdetto. E noi torniamo a casa odiandolo di tutto cuore, ma convinti che l’artificiale sia l’unica soluzione.

Storie di latte di primo pelo (parte I)

Le perverse nurse entrano in azione.

Chessaramai offrire la tetta a un pupo. Lui ciuccia e il latte esce, no? Questo è più o meno quello che pensano tutte le mamme al primo figlio.

E questo è il racconto dettagliato di quello che è successo a me con la Bubi (ne ho già parlato un po’ qui, ma ora ho deciso di dilungarmi al punto che ho dovuto dividere il racconto in tre parti).

Stordita e innamorata, con l’inferno tra le gambe, osservavo quell’essere perfetto che riposava nella culletta trasparente dell’ospedale. Non le toglievo gli occhi di dosso. Non ci riuscivo proprio.

E lei dormiva. Dormiva e basta. Per le sue prime 30 ore di vita non ha fatto che dormire. Qualche volta apriva gli occhietti rugosi da vecchio saggio. Sembrava mi fissasse con tutta la stanchezza del mondo. Le bastava una carezza sul viso per riprendere a dormire.

Poi mi dicono: Ha provato ad attaccarla? Io: No. Sta dormendo. E loro: Eh, la deve svegliare.

Già c’aveva sonno. In più c’aveva una mamma imbranata. Morale. “Difficoltà di attacco”.

Ero totalmente inetta. Mi mettevo di fianco. Distesa. Ci provavo a darle il capezzolo. Ma alla fine dovevo chiamare le nurse ogni volta per farmi aiutare.

“Lei ha il capezzolo piccolo. Bisogna sagomarlo un poco”.

Sagomarlo voleva dire torcerlo tra pollice e indice e ficcarlo nella bocca dell’infante con sadismo degno di Freddy Krueger. Lo facevano loro, le perverse nurse, al posto mio. La tenera pelle del mio capezzolo da adolescente cominciava già a sgretolarsi.

“Tenga il seno all’aria. Ci spalmi sopra un po’ di colostro. Vedrà che passa”.

Estiqaatsi. Il male non passava. Anzi.

“Proviamo con il tiralatte”.

La prima volta che mi sono attaccata a quell’aggeggio infernale mi sentivo un po’ come un limone già spremuto al quale si cerca di cavare le ultime gocce. Non usciva un accidenti di niente.

Io: Ma quanto ci devo stare? Loro: Basta un quarto d’ora per seno.

Facciamo mezz’ora, dai. In totale un’ora di lieta tortura. Alla fine avevo ottenuto un paio di millilitri di un liquido giallo scuro. Che ne faccio di queste goccette? Mah.

Loro: Allora? Io: Eh, è uscito solo pochissimo. Loro: E dov’é? Io: Come dov’è? L’ho buttato via.

Avevo gettato nel lavandino il preziosissimo colostro, fonte di nutrimento indispensabile per il neonato nelle sue prime ore di vita. Mi avevano dato un biberon da 250 ml. Io, nella mia assoluta ignoranza, ero convinta di doverlo riempire tutto. Nessuno mi aveva detto che ne usciva pochissimo. E che ne bastava pochissimo. Sadiche bastarde.

La Bubi si attaccava. Si staccava subito. Si arrabbiava di brutto. Muoveva la testa come una forsennata cercando la tetta. Se la trovava, si aggrappava con le gengive alla punta. E io vedevo le stelle.

Io: Ma è normale che faccia così male? Loro: Eh, sì. Voi mamme di oggi non siete abituate al dolore.

Estiqaatsi.

La Bubi cominciava a recuperare un po’ di peso. Io riuscivo qualche volta ad attaccarla senza l’intervento delle perverse nurse. Ma ero goffa, impacciata, rigidissima. Dovevo avere il cuscino da allattamento ben sistemato, lo sgabellino per rialzare le gambe, la poltrona comoda. Sennò non ci riuscivo. E la Bubi non doveva essere troppo arrabbiata. Cosa molto rara, visto che la poverina cominciava a svarionare di brutto per la fame.

Ma era tutto nella norma secondo loro. Via, a casa, avanti il prossimo. Ci telefoni se ha problemi.

Problemi? Ne ho una caterva di problemi. Tra le congratulazioni e i regalini ho i capezzoli in fiamme, non riesco nemmeno a farmi il bidet e mi viene tanto da piangere. Ma va tutto bene. Tutto bene.

Dichiarazione d’amore

A te che sei nato Patato.

A te, secondogenito designato, che hai sguazzato nel liquido amniotico praticamente indisturbato. Invece di sussurrarti parole dolci e a farti ascoltare Chopin nel pancione, combattevo con le bronchiti e le dermatiti di tua sorella e ti tormentavo con il dilemma: “Riuscirò a volerti lo stesso bene che voglio alla Bubi?”

A te, che ti sei accontentato fin da subito dei body rosa e di una fila di tutine di seconda mano. Una buona parte tinte di blu notte grazie alla Coloreria Italiana.

A te che ti basta un bacio per scoppiare a ridere, ma cominci a distinguere chi merita il tuo sorriso.

A te che stai conquistando giorno dopo giorno l’amore tua sorella. Se lei ti passa un gioco, glielo riempi di bava. Ma farti ridere è diventato il suo passatempo preferito. E le piace da impazzire vederti “tutto nudo”, con quelle morbide cicce al vento. Con qualsiasi temperatura ovviamente. La Bubi ha già dichiarato: “Chi fa male al Patato lo sconfiggo con la spada”.

A te che smentisci ogni teoria sessista e fai andare in brodo tuo padre e tuo nonno esattamente come fa tua sorella.

A te che hai assaggiato la tua prima mela con smorfie di disgusto.

A te che questa sera ti sei addormentato alle 19.30 senza fare più un fiato.

A te, scricciolo d’uomo, che mi hai preso il cuore.

Buonanotte.

Sviolinata al Papais

Mio marito non è un uomo. E’ un supereroe.

E’ dotato di speciali sensori che controllano il mio grado di sopportazione dell’universo bambinesco e si attivano automaticamente non appena si supera la soglia critica. Può essere un provvidenziale giro in bici con la Bubi, una favolosa crema catalana preparata in tempi record mentre lotto per addormentare le belve, due righe di email capaci di toccare le corde giuste. Quando mi manca veramente un soffio al tracollo, il Papais trova sempre il modo di evitarlo. Magicamente.

Gode di poteri trasformisti paragonabili a quelli di Barbapapà. Quando ci capita per sventura che la Bubi dorma con noi, l’unmetroeottantasei del Papais riesce a comprimersi in una superficie infinitesimale. La sua schiena si trasforma in un morbido cuscino, solo perché l’isterica non apprezza il suo petto peloso. L’intero suo corpo diventa un sacco da boxe per parare i colpi notturni della tenera creatura.

E’ l’unico in grado di competere con la logorrea della Bubi. Durante le sue crisi tipiche da duenne, lui soltanto riesce a farla ragionare con il solo potere delle parole senza ricorrere agli svariati mezzi di coercizione che tenterebbero la mamma.

E’ capace di passare dallo stato solido a quello liquido in pochi secondi. E’ sufficiente la magica formula, che ormai la Bubi sa usare benissimo e perfettamente a proposito: “Papais, sei un uomo bellissimo”. Il Patato non ha ancora affinato le sue tecniche, ma sono sicura che presto ci riuscirà anche lui.

Tra gli strumenti in dotazione con la tenuta da supereroe credo ci siano:

  • una bacchetta magica. Quando la cucina sembra sopravvissuta a un disastro nucleare e io balbetto un “pulirò domani” prima di collassare sul letto, il Papais me la fa trovare magicamente a posto la mattina dopo (lo so che non ha la bacchetta, santo di un uomo, si sveglia prima dell’alba per farmi di queste sorprese).
  • un paio di occhiali speciali. Solo questo può permettergli di continuare a farmi complimenti anche quando ho raggiunto il livello massimo di imbarbarimento fisico.
  • dei silenziatori potentissimi che gli permettono di prepararsi per l’ufficio lasciando dormire il resto della famiglia. I Bubini si sveglieranno più pimpanti che mai non appena lui sarà uscito, ma per una mamma esausta anche dieci minuti di sonno in più sono come la manna dal cielo.
  • dei razzi metaforici che gli consentono di innalzarsi oltre le magagne quotidiane. Si sa che solo guardando le cose dall’alto si trovano le soluzioni (e si riesce a ridere).

Me lo sono sposato io, questo super papà, e me lo tengo ben stretto. Tié.

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