Scoperta

 Tre settimane fa.

“Giulia, sei a pezzi. Hai l’umore più nero delle vendite a Cortina, ti incazzi per ogni piuma che cade, non hai mai tempo per te, la tua igiene personale fa schifo, non parliamo della depilatio, son giorni che non riusciamo nemmeno a parlare insieme. Quindi ho preso una decisione. Da oggi faremo una sera io e una sera tu. Oggi tocca a me. Metto a letto io i Bubini.”

La prime due sere ho fatto finta di andarmene di casa. Mi sono nascosta in lavanderia per non farmi sentire. Al buio. E anche piuttosto al freddo.

Dopo le reazioni inconsulte del Papais e del mio intestino (non contemporaneamente), ho deciso che era ora di finirla con i sotterfugi. La Bubi doveva accettare la cosa e basta. [n.d.a. Per il Bubino il problema non si è mai posto. Lui si mette nel suo letto e dorme, incurante di chi ce lo abbia messo].

La prima volta la Bubi ha piantato un dramma che neanche Eleonora Duse. Io ho tenuto duro. Solo perché il Papais mi ha minacciato di una morte lunga e dolorosa se avessi ceduto. La seconda sera ha frignato senza urlare e mi ha chiesto di rimanere con lei solo finché finiva il latte. E poi basta.

Ora la routine è diventata questa. Una sera il papà, una sera la mamma. Liscio come l’olio.

Tre settimane fa.

“Giulia, Bubino oggi ha chiesto di restare senza pannolino. Domani ricordati di portare al nido tre paia di mutandine e tre paia di pantaloni di ricambio.”

“Cosa? Come? Dove? Ma non c’è scritto in tutti i libri che lo spannolinamento si fa in estate? Ma io non sono pronta, non ho comprato niente, a casa ho solo body, non ho canottiere, non ho magliette, e non posso mica mettergli gli slip di sua sorella, quelli con i Barbapapà sono anche carini, ma quelli di Bambi, no, eh? Che poi io sono per crescerli senza preconcetti maschio/femmina, ma questo mi sembra troppo…”

“Giulia, stai tranquilla. Possiamo cominciare anche lunedì.”

Mi aspettavo una lunga maratona tra pozzanghere e rifiuti (vedi qualche mio post di ormai 2 anni orsono qui e qui).

E invece il Bubino sta ormai asciutto tutta la mattina. E gran parte del pomeriggio. E -udite udite-anche di notte. Con la cacca siamo ancora in rodaggio. Quel canederlo marrone gli suscita ancora una certa curiosità ed è più bello ammirarlo che farlo tuffare nel water. In ogni caso, vedermi quel nano girare per casa con le mutandine nere e la maglietta grigia, gli stessi colori del Papais, mi fa saltare il cuore.

E sono rimasta elettrizzata da questa scoperta.

I problemi riescono a risolversi senza che io faccia fondamentalmente un cazzo.

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Se crisi deve essere, almeno che sia seria

Nota per i lettori: il racconto che segue è tratto dal resoconto in differita che mi ha fatto il Papais. Mamma Giulia ha prestato la sua penna, ma per il resto è tutta farina papesca.

La mattina si preannuncia difficile.

Il Bubino è stanco, scoglionato, stufo. Ma più di qualsiasi cosa oggi non vuole andare al nido.

“Non vollio popio più”.

Nella sceneggiata napoletana sono inclusi:

a) il sacco-di-patate (schiena inarcata indietro e braccia in aria, farsi prendere in braccio diventa un’impresa epica)

b) il serpentello-sgusciante (vi sfido a riuscire ad infilargli una manica o una scarpa)

c) la sirena-dei-pompieri-con-idrante

d) l’inappetente, con incluso spargimento di latte sul pavimento).

Inutilmente la Bubi cerca di distrarlo (“Ti aiuto io, Papais”).

Inutilmente la mamma cerca di distrarlo (“Lascia fare a me, Papais”).

In qualche modo riusciamo ad uscire di casa. Lui ovviamente digiuno. Ovviamente piangente.

Io continuo a ripetergli la solita cantilena: “Vedrai che bello in asilo, c’è la Patrizia, c’è Chicco, ci sono i Lego, la sabbia, la pista delle macchinine”.

Ma evidentemente oggi non è proprio giornata.

Arrivati all’ingresso il Bubino continua ad indicare la porta e con insistenza a ripetere: “Lì, lì, lì”.

Mi prende la mano e cerca di trascinarmi, con tutta la forza dei suoi dodici chili.

Provo a togliergli il giubbotto ed è la crisi.

Piange inconsolabile. Un pianto dirotto che avrebbe disintegrato qualsiasi cuore.

Io mantengo la calma.

Continuo a parlargli. Piano. Lento. Convincente.

Accanto a me il via vai delle mamme.

“Giornata dura oggi, eh?”

“Giornata dura oggi, eh?”

“Giornata dura oggi, eh?”

Ce ne fosse una che dica qualcosa di diverso. E tutte con quel sorrisino idiota sulla faccia. Vorrebbero sembrare comprensive ed empatiche. Ma si vede benissimo che se ne vanno via gongolanti perché “il loro” queste scene non le fa. Per oggi, brutte stronze. Solo per oggi.

Il Bubino si è quasi calmato. Singhiozza debolmente. Sembra quasi rassegnato.

Quando arriva lei.

Miss Ioloso.

La maestrina laureata.

La prima della classe.

Si avvicina al Bubino, silenzioso ma quasi consolato.

Con pietosi occhi a triangolo gli dice: “Non vuoi proprio venire oggi in asilo, vero?”

“Nooooooooooooooooooooo”, gli urla dietro lui azionando di nuovo la sirena.

“Ecco, finalmente abbiamo capito il problema.”

Finalmente?!?!

Ma pezzo di rimbambita, è tutta la mattina che abbiamo capito il problema, non avevo certo bisogno di te e delle tue perle di scienza.

Il mio lavoro di convincimento è andato allegramente a remengo.

Il Bubino piange di nuovo. A fontana. A catinelle. A cascata.

Mentre la mia mente vaga su raffinate tecniche di tortura da riservare alle mamme fintamente empatiche e alle maestre laureate, Miss Ioloso continua con il suo intervento non richiesto.

“Eh, il Bubino in effetti è quello che fa più fatica di tutti.”

Non riesco più a trattenermi.

“Scusi, ma, non è quello che ci ha detto Patrizia, la sua maestra. Lei dice che ha qualche momento di nostalgia, ma che tutto sommato il bambino è sereno.”

“Eh, è quello che ho detto io.”

“Beh, direi proprio di no”.

Lei. Faccetta da saputella ripresa.

“Mi scusi, ma permetterà che in un momento del genere le parole che si usano siano piuttosto importanti, non crede?”

Se ne va. Meglio così.

Intanto i compagni del Bubino hanno incollato i loro nasetti alla porta a vetri. Fanno facce buffe e il Bubino li osserva. Quasi divertito. Adorabili.

Ma ecco che interviene Miss Ioloso. Allontana i bambini. Li porta via.

Mentre rifletto ancora più seriamente sulle tecniche di tortura di cui sopra, arriva Patrizia. Una nuvola di serenità e senso pratico.

“Bubino, se non vuoi levare il giubbotto adesso lo leveremo dopo. Non importa. E tieniti anche le scarpe. Non fa niente.”

Lo prende in braccio e mi fa cenno di andare.

Lo vedo piangere ancora.

So che è solo un momento. Che passerà.

E so che è in buone mani.

Almeno lui.

Bubinopatia

In giovine età soffrivo un po’ di metereopatia. Con la mammità, invece, sono diventata Bubinopatica.

Nel senso che il mio umore è indissolubilmente legato al loro. Sono serena se lo sono loro. Sono incazzosa se lo sono loro. Basta uno dei due. E quando lo stesso mood lega entrambi, gli effetti su di me si amplificano al punto da diventare letali.

E’ un periodo d’oro per la Bubi. In poche ore può passare da uno stato di euforia saltellante alla peggiore crisi isterica.

Svegliandola al mattino non so mai quale Bubi mi accoglierà.

Se sarà quella rabbiosa e aggressiva, comincerà ad urlare perché ho acceso la luce, perché non le ho messo bene la fascia tra i capelli, perché la manica si è incastrata mentre la vestivo, perché il latte è troppo freddo o troppo caldo. Mi prenderò probabilmente un fracco di legnate. Il Bubino si sveglierà di soprassalto, preso dal panico. E ci vorrà un buon quarto d’ora per calmarlo. Io arriverò in ufficio in ritardo, con umore pessimo, pronta a mangiar vivo il primo collega che mi capiterà a tiro.

Se ad accogliermi sarà la Bubi dolce e accomodante, mi prenderà il viso tra le mani e mi dirà: “Non farò mai più i caprissi, mamma. MAI PIU’”. Mi riempirà di baci e mi stringerà con le sue braccine magre. Faremo colazione in una nuvola di confidenze e di chiacchiere. Mi saluterà allegra augurandomi “Buona giornata!”. E io entrerò in ufficio, sempre in ritardo, ma leggera come una piuma, convinta che mia figlia sia la creatura più adorabile della terra e che io sia la mamma più fortunata del mondo.

Per la sera stesso discorso. Ma non è detto che la Bubi che mi ha accolto al mattino, sia la stessa che vado a prendere a scuola.

Qualche malalingua in vena maschilista potrebbe sentenziare che di donna si tratta, anche se in miniatura. Ma tu, malalingua, non pensare che il Bubino sia da meno.

Se di solito è un adorabile e sorridente patatone, nelle sue giornate storte ogni gesto minimo diventa una lotta infernale. Si divincola come una tigre per non farsi mettere il giubbotto. Mi sputa addosso la cena. Si butta per terra urlando se oso infilargli le scarpine. Balbetta monosillabi incomprensibili, arrabbiandosi di brutto se non capisco.

Forse sono stanchi. Non dormono abbastanza. La messa a letto è una lotta ogni volta e non si finisce mai prima delle 22,00.

Forse sono capricciosi e viziati. Non gli diamo abbastanza regole.

Forse vengono rapiti dagli alieni che li sostituiscono temporaneamente con dei cloni difettosi.

O forse sono io. Dovrei combattere la Bubinopatia, mostrarmi sempre allegra ed empatica, andare loro incontro dandogli io una direzione, senza farmi trasportare da loro. Il Papais è molto più bravo di me in questo. Io no. E tanto per crogiolarmi nell’autocommiserazione, aggiungo che sono proprio una pessima mamma. Stanca e stufa.

Almeno fino al prossimo cambio di umore.

 

Nausea

E’ da diversi giorni che avverto un chiarissimo, fastidioso senso di nausea.

No, no, non sono in stato interessante. Non se ne parla nemmeno. Per carità.

Non è neanche per le crisi da indemoniata che prendono la Bubi in questo periodo. Non riusciamo ancora a capirne il motivo. Lotte di potere. Stanchezza. Capricci. Non sappiamo ancora bene come affrontarle. Ma diobuono, quanta pazienza ci vuole.

La mia nausea non dipende neanche dal Bubino, che ha iniziato a bere il latte vaccino, ma me lo restituisce dopo qualche ora in forma semisolida.

Niente di tutto ciò mi dà la nausea.

E’ solo che ogni tanto leggo i giornali.

Natale bubino

Della serie, pessima questa, mamma Giulia.

Erano un po’ di giorni che usavo questa sconsigliatissima strategia del ricatto per farmi ascoltare dalla Bubi.

Esempio.

Ore 22.00 (mentre era da più di 40 minuti che scalciava nel letto).

“Guarda che se non fai le nanne subito, Babbo Natale non ti porta i regali” (mi odio quando mi escono queste cose, visto che le ho sempre odiate io da bambina. Ma che volete, la stanchezza fa brutti scherzi).

La Bubi mi guarda con gli occhioni sbarrati.

“E sai cosa ti porta al posto dei regali?”

“Cosa, mamma?”

“Il carbone”

La Bubi, visibilmente colpita: “A Amel gli porta il carbone, a me no però, adesso fasso la brava” (ndr: Amel è un compagno di classe della Bubi, personificazione di tutte le malefatte che un bambino possa compiere nella vita).

Insomma, sì, ho usato quest’arma.

Ma che non funzioni affatto me l’ha dimostrato proprio la Bubi la mattina di Natale.

Dopo aver scartato euforica  i suoi pacchetti e quelli del Bubino, ha sentenziato convinta: “Visto? anche se facciamo gli sciocchini, Babbo Natale ce li porta lo stesso i regali!”

Miracolo

Ore 14.00. Proporre alla Bubi un “sonnellino” è come chiederle di cuccarsi il Festival di San Remo.

La nanna del pomeriggio lei la odia. Da tempo immemorabile.

All’inizio fu solo il rifiuto del lettino. Se nanna doveva essere, la Bubi si addormentava solo nel lettone e con qualcuno vicino. Altrimenti ciccia.

Poi divenne un’antipatia generica. Chi riusciva a farle prendere sonno con una storia o una canzone, riemergeva alla fine trionfante come se avesse vinto una finale di campionato. Nonnasanta e Nonnoprof combattevano una sfiancante quanto inutile battaglia. Lei persistendo con i metodi della materna, che 9 volte su 10 erano un fiasco colossale. Lui rassegnandosi a scarrozzare la principessa in passeggino. Sfidando intemperie e temperature.

Infine diventò una sfida puramente politica.

“Mamma, c’è il sole, io non vollio dormire.”

Ho provato prendendo la cosa di petto. La Bubi era capace di piangere anche 40 minuti di fila. Qualche volta crollava sfinita. Qualche altra teneva duro fino alla fine.

Ad un certo punto ho concluso che la Bubi non aveva più bisogno del sonnellino pomeridiano. Ho provato a toglierglielo per diversi mesi. Ma dovevo organizzare la giornata in modo da evitare qualsiasi giro in macchina o in passeggino tra le ore 16 e le ore 19. Perché altrimenti lei crollava addormentata, sfasando tutti gli orari della sera.

Putroppo a volte arrivava a fine giornata veramente troppo stanca, e spesso e volentieri si consumava il dramma.

Alla fine ho adottato il buon vecchio metodo della flessibilità. La regola era che non si dorme al pomeriggio. Ma se il livello di capriccio superava la soglia di sicurezza, allora trovavo una scusa qualunque per portarla fuori in passeggino. Io che mi sono sempre imposta di dirle la-verità-tutta-la-verità-nient’altro-che-la-verità, pur di farla dormire mezz’ora mi piegavo alle bugie più becere. Andiamo al parco, andiamo a prendere un gelato, andiamo al bancomat che poi ti compro un chupa-chupa.

Ma non è mica facile ingannarla, la mia Bubi adorata. Qualche volta insisteva per andare a piedi. Oppure cantilenava per tutto il tragitto cercando di non addormentarsi. Si incavolava nera se le tiravo giù lo schienale. Se mi mettevo a canticchiare una canzone, scattava: “Non cantare, sennò mi addormento”. Se allungavo la strada mi domandava all’infinito: “Ma dove stai andando, mamma?”.

Da quando è iniziato il tempo pieno a scuola, questa piacevole odissea è finita.

Ora la palla è passata alle maestre.

Attendo il miracolo.

Senza pietà

Le mamme non si ammalano. Mai.

Quando la mia testa è un tendone da circo in cui rimbomba il più minimo fruscio. Quando il mio naso è un rubinetto rotto che si è scassato i maroni di essere soffiato e ora fa sciopero. Quando i miei occhi sono due fessure rosse e pruriginose. Quando gli starnuti sono boati che mi sconquassano dentro e fuori. Quando venderei un rene per un’ora senza i Bubini, ma il caso vuole che tutti i nonni siano in ferie. E il Papais lavori.

Perché tu, Bubi, insisti che non ti scappa la pipì e poi la fai immancabilmente sul tappeto del bagno? Perché ripeti che non vuoi fare la nanna quando si vede benissimo che crolli dal sonno (e anche io)? Perché vuoi sempre la mamma per raccontarti la storia anche se con la voce nasale non viene bene? Perché pianti capricci che sarebbero insopportabili per qualunque umano figurarsi per uno zombie raffreddato?

E perché tu, Patato, caghi ogni ora costringendomi a cambiarti quindici volte in un giorno (e questa volta benedicendo il raffreddore)? Perché dimostri il tuo apprezzamento alla pappa facendo il brum-brum della macchina e riempiendo me e i miei occhiali di resti appiccicosi? Perché ti vomiti addosso appena ti ho messo il pigiamino pulito? Perché ti svegli cinquecento volte per notte (e magari sono “solo” cinque, ma a me sembrano molte di più)?

Che ve lo chiedo a fare.

Io lo so perché.

Perché voi non avete pietà.

Di gelosia non ce n’è una sola. La quarta fase: e mo’ so’ cavoli amari

O chiamo l’esorcista. O faccio un bel mea culpa.

La Gelosia è infida. Quella fetente si infila dietro altri problemi. Si nasconde. E poi fa esplodere tutto con la sua forza dirompente.

Si è intrufolata nel bel mezzo delle prove da spannolinamento. La Bubi stava andando alla grande. Dopo solo una settimana di rodaggio, non si bagnava più. Chiamava pipì e anche cacca. Grandi feste e grandi lodi da parte nostra. Io che già mi sentivo più in gamba di Tata Lucia.

Poi qualcosa è saltato.

Rifiutava di andare a far pipì. E puntualmente se la faceva addosso subito dopo. Non potevo essere certa che fosse voluto, ma ne aveva tutta l’aria.

Contemporaneamente è esploso il Capriccio Inconsulto. Ogni minima cavolata era un braccio di ferro.

Partiva fin dal mattino. Non voleva scendere per far colazione. Non voleva vestirsi. Non voleva il latte. Non voleva i cereali. Non voleva uscire, ma non voleva neanche stare a casa. Non voleva dormire, ma era stanca. Non voleva e basta. Urlava correndo via come una pazza. Si buttava a terra. Tirava calci. Arrivava anche a provocarsi il vomito dalla rabbia (l’ho raccontato qui).

Mi mandava in bestia in ogni modo possibile. E ci riusciva. Eccome se ci riusciva.

E intanto il Patato cresceva più delizioso che mai. Estasiata dai suoi gridolini e dai suoi gorgheggi, cercavo di passare più tempo possibile sola con lui. Sì, preferivo lui. Eccheccavolo, sì. Lo ammetto. Preferivo di gran lunga stare con lui. Perché lui non faceva discussioni. Perché farlo divertire era semplice. Perché si lasciava vestire, imboccare, lavare. Perché dormiva senza rognare.

Ad un certo punto ho avuto l’illuminazione (non è stata così immediata, eh? mica son così sveglia!). Nella testa della Bubi io volevo più bene al Patato perché lei era cattiva. E me lo stava dimostrando. Il muro contro muro non portava a niente. Dava solo altri argomenti alla sua tesi. Più mi mostravo inflessibile, severa, intollerante, più lei si convinceva di essere “quella cattiva”.

Il periodo più pesante è durato un paio settimane. Poi ho cambiato rotta con una severa autocritica (l’ho raccontata in parte qui). Mi sono ammorbidita e rilassata (per modo di dire).

Stiamo cercando di non crearle ulteriore stress con lo spannolinamento. Ormai sono quasi due mesi che abbiamo tolto ‘sto benedetto pannolino. Gli incidenti capitano ancora. Ma cerchiamo di trattarli come tali senza farci domande inutili.

Cerchiamo di non reagire ai suoi capricci con il braccio di ferro. Ho inventato l’angolo del capriccio, ma tento di usarlo il meno possibile.

Per ottenere quello che vogliamo abbiamo scoperto che dobbiamo aggirare l’ostacolo distraendola. Parliamo parliamo e parliamo in continuazione. La stordiamo di parole e racconti, veri o inventati. Abbiamo capito che dobbiamo stimolare la sua fantasia per farle fare le cose, trasformare tutto in un gioco. Non è sempre facile, soprattutto quando si hanno i minuti contati e i nervi a fior di pelle. Ma al momento è l’unica strategia che funziona.

La fase attuale non ha ancora i contorni ben precisi. Ci son ancora Piccole Regressioni. E ci sono anche Capricci Inconsulti. Più il Patato cresce più la Gelosia della Bubi si evolve. Come un mostro mitologico dalle mille facce.

Ho imparato a tenere gli occhi aperti. E stai tranquilla, fetente di una Gelosia. Prima o poi vincerò io.

Di gelosia non ce n’è una sola. La seconda fase: idillio apparente

Fortuna che il Patato era tale.

Perché una volta nato lui, la Bubi si è resa conto che la sua vita non era cambiata granché. Il fratellino dormiva, tanto. Piangeva, piano. Mangiava, a volte. Il periodo natalizio era decisamente favorevole. Tanti regali, tanta gente per casa, tutti che festeggiavano lei. Deliziosa nella sua veste di “quella grande”. Orgogliosa di quel piccolo essere che riposava nella culla.

Il fatto che il Patato ciucciasse la tetta non le creava grossi problemi. Una volta la Bubi provò anche ad assaggiare il mio latte. Il suo silenzio era eloquente. Non osava dirmi che faceva schifo, sembrava non volesse offendermi. Ma subito dopo aver bevuto una tazza di latte di mucca, sparò una delle sue mitiche uscite: “Questo è buono! Quello della mamma no! Piace solo al Patato.”

Tutto ciò succedeva di giorno. Di notte invece era un dramma. Se la Bubi si svegliava e mi “beccava” con il fratellino attaccato, eran dolori. Urlava finché non lo staccavo e non prendevo lei. A quel punto urlava lui, povero cucciolo affamato, e il Papais difficilmente riusciva a calmarlo. Finiva che lo riattaccavo scatenando di nuovo le ire di lei. Una catena.

Con il passare dei giorni però la routine della nanna tornò quella di prima. La Bubi ricominciò ad addormentarsi serena, senza manina e senza incubi notturni. Un vero idillio. Addirittura, se capitava che lo sentisse piangere nella delicata fase pre-nanna, aveva il coraggio di dirmi: “Vai dal Patato, mamma. Piange. Io sto qui e faccio le nanne”. E si addormentava sul serio.

Ogni volta che succedeva dei grossi lacrimoni mi rotolavano giù dagli occhi. Quale sorellina arriva a tanto? Che bambina stupenda. E noi? Quali genitori sono così in gamba? Che geni della psicologia infantile.

Ma la terza fase ci aspettava dietro l’angolo. Inesorabile come le scadenze del fisco.

Di gelosia non ce n’è una sola. La prima fase: crisi di abbandono

Come al solito avevo letto tanto sull’argomento.

Ma come al solito la realtà è stata molto più spiazzante. Quando mi sono ritrovata faccia a faccia con lei, la Gelosia, niente di quello che avevo letto mi sembrava funzionare.

Non stato è facile riconoscerla, quella brutta bestia.

La prima volta che si è presentata mancavano circa 2 mesi al parto. La Bubi ha cominciato a svegliarsi spesso di notte. Cosa abbastanza usuale per lei fino a poco tempo prima. Ma il brutto è che si svegliava urlando. Angosciata. Terrorizzata. Ci voleva anche un’ora per calmarla.

Poi ha iniziato a fare fatica ad addormentarsi. Non funzionava più niente della solita routine. Alla fine mi ritrovavo a tenerle la manina. Per ore. Ogni volta che cercavo di estrarre la mano dalla sua presa con precisione chirurgica, lei, matematicamente, si svegliava.

“Stai ancora un pochino mamma”.

Il “pochino” si dilatava al punto che per tenermi sveglia facevo gli esercizi al perineo. In genere al quattordicesimo tentativo di estrazione della mano con conseguente risveglio, gettavo la spugna e la portavo nel lettone. Ma nonostante dormisse avvinghiata a me come una cozza, gli incubi tornavano a farle visita. Puntuali.

In un momento di calma, le chiesi direttamente che cosa le facesse tanta paura. La risposta fu spiazzante.

“Ho paura che la mamma non torni più”.

Così. Letteralmente. Con il congiuntivo al posto giusto. Una bambina di due anni appena compiuti che si autopsicanalizza con una chiarezza degna di Freud. Così l’ho interpretata io: “La mia mamma non tornerà mai più quella di prima. Questo pancione la sta cambiando. E mi fa paura.”

Cosa fare? A quel punto dovevo farle capire che sì la mamma sarebbe cambiata, ma il mio bene per lei sarebbe rimasto sempre quello. Fino ad un attimo prima avevamo letto insieme molti bei libretti sul parto e sull’arrivo del fratellino (se volete li trovate qui, qui e qui). Le avevano dato un’idea fin troppo precisa di cosa sarebbe accaduto.

Allora mi sono trasformata in una semi-buddista. Le ripetevo in ogni momento il mio mantra: “La mamma torna sempre”. Lo facevo veramente come una buddista, con voce cantilenante, monotona. “La mamma torna sempre”. Soprattutto prima della nanna sembrava funzionare a meraviglia. Non vi dico la gioia quando l’ho sentita ripetere la stessa frase al suo orso mentre lo metteva a dormire. “La mamma torna sempre”.

Quando tutto sembrava risolto, è intervenuta la sfiga. E mi sono rotta un piede. Ma questa è un’altra storia.