Re: Quando dormire è un problema

Cara Bubi,

mi hai fatto commuovere con la tua letterina. Ovvio che sai toccare le corde giuste, nonostante tu abbia solo quattro anni.

Ma permettimi anche uno sfogo.

Tutto il tuo bisogno di mamma è una sincera rottura di cogl  fatica per me.

La tua mamma, sappilo, di fondo sarebbe una madre modello. Di quelle che non usano mai il “no” perché è diseducativo. Di quelle che cercano la mediazione, il convincimento, l’ascolto attivo. Tua madre si bea leggendo le testimonianze della Leche League. Si identifica in quelle mamme calme, attente, premurose. Le piacciono da morire. Tua madre compra libri dai titoli assurdi tipo “crescere in armonia”, “ascolta il tuo bambino”, “essere assertivi”. Magari li lascia vegetare sul portariviste del bagno. Ma a volte li sfoglia convinta, vagheggiando sul come metterli in pratica.

E’ che poi la tua mamma si scontra con la realtà. Da quando non ho più l’agognato part-time le mie giornate sono piuttosto pesanti. Lo vedi su di me, sulle mie occhiaie, sulla mia faccia che sta invecchiando così velocemente. Ma soprattutto sulla mia pazienza che non è più quella di una volta. La tua mamma ne ha spesso i cogl.. pieni abbastanza dei vostri litigi, dei vostri capricci, del non sapere cosa farvi per cena perché qualsiasi cosa la rifiuterete schifati.

Alla fine di una giornata di merda pesante la tua mamma vorrebbe accoccolarsi in braccio al Papais e fare sesso guardare un film sorseggiando una tisana.

Chiedo troppo?

Ci sono genitori che fin dall’inizio impostano la loro vita sul “loro devono adattarsi a noi, non noi a loro”. E quindi vanno di “Fate la nanna”, regole ferree, messa a letto alle otto, divieto del lettone e robe simili. Li ascolto estasiata. Mi sembrano bravissimi. Tutto sembra funzionare a meraviglia.

Mamma e Papais ci hanno provato.

Come avrai capito i tuoi genitori di certezze non ne hanno nessuna e quindi hanno pescato un po’ di là e un po’ di qua. Hanno provato un po’ di carota e un po’ di bastone. Ti hanno lasciata piangere sul lettino quando avevi appena un anno e dormivi solo in braccio (…ah, che periodo, finivo per dormire seduta sul letto con te in braccio, perché appena ti posavo strillavi…). Salvo poi riaccoglierti nel lettone durante le tue (innumerevoli) malattie.

Colpa nostra, lo ammetto. Non abbiamo saputo darti una routine sempre uguale. Da utilizzare sempre, cascasse il mondo. La nascita del Bubino ha scombussolato tutto, ovviamente. Perché ce ne vuole a lasciar piangere la grande nel suo letto mentre accanto c’è il piccolo che si sveglia per ogni stracazzo di bava di vento (vale anche il contrario, eh?).

Insomma ci siamo arrabattati a cercare ogni volta la soluzione migliore.

Certe volte ci siamo illusi di averla trovata. Ha funzionato per un po’. Poi ha smesso di funzionare.

Siamo ancora alla ricerca.

In questi giorni hai la febbre e uno strano virus gomitone che ti ha ricoperta di macchie in viso. La sera mi guardi speranzosa e mi chiedi: “Sono malata, mamma?”. E anche se sai già la risposta, fai lo stesso la tua domanda, con quella irresistibile luce negli occhi: “Allora posso dormire con te?”.

Ovvio che sì, Bubi.

E ovvio che anche se ti passerà la febbre, non mi sognerò mai di riportarti nel lettone quando arriverai in piena notte. Questo perché di fondo ho sonno e non voglio rischiare di svegliare il Bubino con le tue urla disumane sono una mamma assertiva come quelle di cui sopra.

Però troviamolo un compromesso, Bubi.

Cerchiamolo insieme.

Devi capire anche me e che cazzo.

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Quando dormire è un problema

Cara mamma,

sai che quando ti scrivo io in genere sta arrivando il predicozzo. Non ti lamentare, dai, che non ti scrivo così spesso.

Siete orgogliosi di me e lo so. Perché son diventata molto autonoma (questa è la parola che usano le maestre). Mi so mettere le scarpe, i calzini, le braghe, la maglia e la felpa. Tutto da sola. Anche il giubbotto. Datemi il mio tempo. Se vi offrite di aiutarmi divento una iena. Voi avete più di trent’anni di esperienza in giubbottologia. Ecchecavolo. Sarà mica un problema se a me ci vogliono cinque minuti invece di uno.

Da qualche giorno mi faccio anche il bidet da sola. Ho sbigottito la mamma, che ha imparato quasi all’alba della pubertà. Ho sbigottito il papà, che non vi svelerò quando ha imparato per pura decenza.

So scrivere il mio nome. Posso scriverlo grande, piccolo e anche medio. Come mi gira. Ma sono sempre molto precisa. Che a me le cose approssimative non mi piacciono.

Però non mi addormento da sola.

O meglio.

Lo faccio a scuola. Quando ho tutte le mie amiche e i miei amici vicino. Che abbiamo fatto una bella banda in classe, eh? Mi diverto un sacco. Quando abbiamo finito di giocare e le mastre gridano “si riordina!”, ce ne andiamo per manina in dormitorio. A destra ho la Sara e a sinistra ho la Serena. Più dietro ci sono Alessandro, Isacco e Davide. Ci sono anche i piccoli, che ogni tanto frignano un po’. Ma io metto la testa sul cuscino e in due secondi mi addormento. Non sento nemmeno la fine del racconto della maestra.

A casa è tutta un’altra storia.

Non la sento proprio, la stanchezza.

Chiediti perché, mamma.

Non ti vedo tutto il giorno.

Mi vieni a prendere alle 16,20 con gli occhi stanchi e la pelle tra il grigio e il verde. Corriamo al nido dal Bubino, perché vuoi a tutti i costi essere lì entro le 16,30 perché sennò rimane l’ultimo di tutta la scuola. Non ce la fai mai. Poi magari c’è la spesa da fare, i vestiti da sistemare, i letti da rifare, la cena da imbastire. Mi piazzi davanti ad un cartone e pretendi che stia lì. I cartoni mi piacciono. Ma mi piace di più stare con te.

E poi c’è il Bubino che mi mena perché è stanco anche lui. Qualche volta ce la facciamo a giocare insieme. Ma non è facile, lo sai. E’ che lui non capisce che deve giocare come dico io. Esattamente come dico io.

La sera ho bisogno di te.

Della tua presenza.

Se siamo nel lettone è molto meglio. Ti abbraccio il braccio e mi addormento veloce.

Nel mio lettino ci metto un sacco. Ma taaaaaaaaaaaaaaanto.

C’hai provato tante volte ad andartene via. A dirmi “la mamma va giù, fai le nanne”. Ma io proprio non ce la faccio. Ho bisogno di te. Vicina.

Ti raggomitoli sulla sedia e aspetti.

Aspetti che mi venga sonno.

Mentre il Papais è giù che sistema la cucina e poi si guarda Ballarò. Che vorrebbe tanto vederlo insieme a te. Ma quando tu finalmente arrivi hai la faccia di Cher senza trucco e senza chirurgia plastica. E il Papais pietosamente ti dice: “vai a letto, che fai spavento”.

E tu vai a letto. E dopo un po’ di ore arrivo anch’io. Perché sul mio lettino non riesco mai a fare una dormita filata. Mai. Me ne esco a nel cuore della notte, incurante del freddo e del buio pesto. Raggiungo il lettone e mi ci infilo. Tié.

Ho bisogno di te, mamma.

E le poche sere che non ci sei, preferisco aspettarti fino alle undici piuttosto che addormentarmi senza di te. E l’ultima notte che mi hai lasciato dai nonni me la ricordo ancora, perché proprio non ci volevo stare.

Non ti lamentare sempre, mamma.

Non so quanto durerà. Forse ancora per poco.

Ma concedimelo, mamma.

Di avere ancora bisogno di te.

C’è che

C’è che una settimana fa hai compiuto quattro anni.

C’è che avrei voluto dedicarti un post. Perché questo è anche e soprattutto il nostro diario. Ci scrivo sopra delle cose per non dimenticarle negli anni a venire.

Volevo scrivere di te, di quando torni a casa con le braccia piene di segni di pennarello, perché con la Vale vi siete fatte “gli statuaggi”.

Di quando mi dici che hai cambiato colore preferito, che non ti piace più il blu, ma il “fuxian”.

Di quando fai una promessa e sottolinei: “La mia non è una promessa di marinaio, eh? Perché il marinaio prima ti dice che ti sposa e dopo parte con la nave.”

Di quando andiamo a prendere il Bubino in asilo e tu vuoi sempre entrare per prima. Così quel botolo ciccio ti butta le braccia al collo esultante, gridando: “Sorella Bubi!”.

Di come ci tieni a fare una cosa alla volta, al contrario della tua mamma. Se ti parlo mentre sei seduta sul water, mi dici: “Aspetta, mamma, che mi sto concentrando”.

Di quando con il Nonnoprof discutete dei “cartoni antiquati”, dove le donne non sono mai i capi. Ti metti a riflettere su quali sono quelli meno antiquati, dove le donne sono avventurose e coraggiose, comandano eserciti, equipaggi, popoli. Ma alla fine non riesci a trovarne nemmeno uno e concludi, seria seria: “Dobbiamo assolutamente cercarli.”

Ma c’è che la tua mamma in questo periodo non sembra più la stessa.

Lavoro, Bubi. E tanto.

E non so bene cosa questa parola significhi per te.

Vorrei raccontarti che il lavoro gratifica. Che non si lavora solo per i soldini, ma anche per se stessi, e per il proprio paese, e per le persone che ci circondano. Che il lavoro ha un valore sociale.

C’è che invece il mio, di lavoro, sembra solo una serie infinita di ore. Dieci. Undici. Anche dodici ore al giorno.

Ore sottratte a voi Bubini. Certe volte fai i capricci, Bubi. E se ci riflettiamo insieme scopro che li fai proprio perché non ho trovato in tutta la giornata un momento per giocare insieme.

Ore sottratte al Papais. Che non fa i capricci come te, Bubi, ma ne avrebbe tutte le ragioni.

Ore sottratte ai mille progetti che mi ronzano in testa e che non riesco a concretizzare. Progetti che mi darebbero sicuramente più soddisfazioni. Mi farebbero più felice. Soprattutto in questa fase di passaggio, che tutti ci aspettiamo storica, ma se continuiamo a stare alla finestra non porterà da nessuna parte.

C’è che sono stanca. Come la stragrande maggioranza dei genitori che lavorano. Come lo erano i miei genitori, con due figli, due lavori, e nessun aiuto esterno. Come lo era mia nonna Cecilia, con dieci figli e senza lavatrice. Come lo era mia nonna Caterina, che di figli ne aveva “solo” tre, ma se li doveva gestire insieme all’unico bar del paese.

C’è che vorrei spiegarti che certe volte semplicemente mi mancano le forze. E che quando una si sveglia tutte le mattine alle 6 e si cucca dieci ore di lavoro filate, sentire la tua vocina che reclama: “giochiamo, mamma?” suona come un brutto sogno.

C’è che certe volte vorrei che tu e il Bubino aveste un interruttore. Di quelli che basta premerlo e vi addormentate. Ma sarebbe sufficiente se vi metteste d’accordo. Se quando il Bubino ha sonno ce l’avessi anche tu, e viceversa. Cosa rarissima di questi tempi.

C’è che mi sento talmente a terra da non sapere da dove cominciare per tirarmi su.

C’è che prima o poi ti dovrò spiegare anche un’altra cosa.

Ovvero che cos’è la crisi premestruale.

Notte fuori

“La Bubi non riesce a dormire con il buio completo. Lasciate accesa la luce del bagno, almeno. Ah, ricordatevi di farle fare pipì prima di andare a letto, che certe volte si dimentica.”

“Giulia, andiamo”

“Il Bubino beve il biberon tiepido, mi raccomando t-i-e-p-i-d-o, non bollente.”

“Giulia, è tardi”

“Anche la Bubi vuole un po’ di latte, basta poco, mezza tazza. Sempre tiepido, eh?”

“Giulia…”
“E mandatemi uno squillo, un sms, un segnale di fumo quando si addormentano”

“Giulia!!”

“Tengo il telefono sempre acceso, eh? E ho messo anche la Tachipirina nella borsa, non si sa mai. Vi ho scritto il dosaggio, eh? E’ scritto qui: Bubi 8 millilitri, Bubino 6.”

“Basta, Giulia, dobbiamo andare adesso”

“Aspetta che gli do almeno un bacino”

“ANDIAMO”

Strattonata dal Papais. Infilata a forza nell’ascensore. Con la tipica morsa allo stomaco indice di senso di colpa latente. Mamma Giulia ha cominciato a sentirsi bene solo dopo un doppio spritz.

Decisamente bene.

Aria fresca e leggera. Ultimo sole della sera.

Scenario da piazza nordeuropea. Pedonale. Culturale. Giovane.

Il ghiaccio che si scioglie lento nel bicchiere.

Noi. Senza fretta alcuna.

Nessuno che svariona perché non ha mangiato entro le 19,00. Nessuno che se ne scappa per tutta la piazza. Nessuno che mi macchia i vestiti baciandomi con la bocca di gelato. Nessuno che mi si attacca alle gonne denudandomi vergognosamente davanti al mondo intero.

Solo noi due. E la nostra cena a lume di candela. E il nostro concerto del nostro Capossela.

Mentre sfumano le ultime tracce di alcool, Mamma Giulia viene riposseduta dall’apprensiva che alberga in lei. Ricomincia a guardare incessantemente il cellulare. Una, cinque, dieci volte.

Finché arriva il messaggio: “Bubino 21,30. Bubi mezzanotte meno dieci”.

Assillata da immagini tragiche. Con la Bubi piangente che reclama il “braccino” della mamma. Con Nonnoprof e Nonna Santa esausti ed impotenti. Riflettendo seriamente sull’estrema soluzione, ossia raggiungere nottetempo la casa natia per salvare figlia e nonni dall’infausta nottata. Mamma Giulia crolla all’una e mezza in un sonno agitato, popolato di strani esseri tentacolari e cornuti (sarà stato Vinicio? Sarà stata l’ansia?).

Ore 7,00. Telefonata di Nonna Santa.

“Tutto benissimo. Hanno dormito tutta la notte. Il Bubino tranquillo nel suo lettino. La Bubi, gasatissima, è stata per ore a chiacchierare con il nonno. Ma alla fine è crollata anche lei. Serena e contenta”.

Serena? Contenta?

Già.

Ce la fanno senza di me.

Loro sì.

Brutta bestia il multitasking

Una volta lo consideravo un pregio. Ora ho cambiato idea.

Consigliano di allattare il proprio bimbo in intimità, meglio in penombra, accarezzandolo teneramente.

Io mi son trovata spesso a sfamare il Bubino in piedi, reggendolo con un braccio, mentre con l’altra mano facevo una torre di Lego o mescolavo la pasta.

Ti dicono che sarebbe meglio guardare la tele insieme ai propri figli.

Io commento Dumbo con i Bubini mentre esco ed entro dalla cucina. Tanto ormai lo so a memoria. Qualche frase azzeccata la imbrocco sempre.

Consigliano di giocare con i propri figli.

Io ci gioco tutti i giorni, ma contemporaneamente svuoto la lavastoviglie, metto a stendere il bucato, ne metto uno nuovo in lavatrice, sistemo vestiti, rifaccio letti, ficco qualcosa di non ben identificato in forno.

Quando si parla con un amico, bisognerebbe prestargli attenzione e guardarlo negli occhi.

Da tre anni a questa parte, ho perfezionato un occhio bionico tipo mosca, che mi permette di parlare con una persona e nello stesso tempo controllare se il Bubino mette in bocca un sasso o rischia una capocciata su uno spigolo vivo.

Riesco a gestire una conversazione al telefono, nonostante le continue interruzioni della Bubi la cui logorrea non si ferma davanti a niente e nessuno.

Riesco a preparare la cena, nonostante il Bubino mi si aggrappi ai pantaloni e voglia assolutamente aiutarmi a rischio ustioni.

Sono diventata talmente efficiente che ormai lavo i Bubini insieme e li metto a letto insieme. Cosa che fino a qualche mese fa mi sembrava impossibile.

Nonostante le indubbie doti da supereroe, il Papais non riesce in queste imprese.

Ne dovrei essere fiera?

No.

Perché il multitasking è un’arma a doppio taglio.

Il Papais fa una cosa alla volta e se la gode.

Io ne faccio dieci insieme e non me ne godo mezza.

La Bubi è davvero una brava bambina. Ma se c’è una cosa che la fa diventare petulante come una zanzara tigre, è quando viene ignorata. Mi segue come un’ombra ripetendo: “Giochiamo, mamma?”. Ed ha ragione. Perché appena comincio un gioco l’abbandono per fare qualcos’altro, pretendendo che prosegua da sola.

Il Papais, diciamolo, è un pezzo di pane ed ha la pazienza di Madre Teresa. Ma se c’è una cosa che lo fa veramente incazzare, è quando faccio finta di ascoltare. Ossia ogni volta che lui cerca di parlarmi e nello stesso momento io seguo con lo sguardo le imprese del Bubino, rispondo ad una richiesta della Bubi, sbuccio mele e lavo piatti. E a lui al massimo riservo un sì-sì con la testa.

Il Bubino è ancora troppo piccolo per lamentarsi di me. Ma penso che non manchi molto.

Il livello massimo di insopportabilità l’ho raggiunto un sabato pomeriggio.

Era da ore che io e una mia amica ci rincorrevamo al telefono, senza riuscire a parlarci. Alla fine il cellulare mi è squillato nel bel mezzo di una gita in carrozza trainata da due simpatici asinelli. Idilliaco e rarissimo momento familiare. Con i Bubini estasiati e deliziati che lanciavano gridolini e salutavano i passanti.

E cosa ha fatto la mamma Giulia multitasking?

Una vera mossa alla Verdone: “No, no, non mi disturbi affatto”.

Ho passato tutti i 15 minuti della gita in carrozza a parlare con la mia amica al telefono. Quando ho messo giù ho percepito il silenzio glaciale intorno a me. E ho capito la gran figura di merda che avevo fatto.

Ecco.

Da oggi in poi l’obiettivo sarà: meno efficiente ma più felice.

Dite che ce la faccio?

Sulle rose e sui fiori

“Da quando sono mamma tutto è meraviglioso.”

Non so se vi è mai capitato. Ne parlano come di un evento trascendentale, di un’esperienza extrasensoriale. Essere genitori è entrare in un mondo rosa, morbido, in cui tutto è stuppppendo dolcissssssimo. Mentre voi avete le occhiaie fino al mento e uno strano colorito bluastro, loro vi raccontano serafici che l’angioletto dorme tutta la notte, lo metti in culla e da solo si addormenta. Mentre siete intenti a calmare la vostra bestiola urlante in tutti i modi leciti e non, loro vi guardano con amorevole pena e vi decantano di quanto il loro tesoruccio sia sempre assolutamente placido in tutte le occasioni, perfino quando escono a bere un aperitivo. I loro figli sono sempre impeccabili. Non si sporcano mangiando. Non rigurgitano. Non disturbano.

Forse nemmeno la loro cacca puzza come quella dei vostri.

Vi dirò. Io alle fandonie sul bambino perfetto non ho mai creduto.

I bambini sono bambini e basta. Sono meravigliosi proprio perché sono imprevedibili, perché ti mettono in discussione ogni giorno, perché ti sorprendono e ti costringono a cercare di continuo nuove soluzioni.

Essere genitori è difficile. E’ duro. E’ una battaglia. Ma è proprio questo che la rende un’esperienza unica. Perché se fosse tutto facile non ti godresti le vittorie allo stesso modo.

Non saremmo tutti molto meno frustrati se la finissimo una buona volta con questa gara a chi è più bravo?

Magari io esagero a pubblicare addirittura un blog sulle mie sfighe mammesche. Ma, accidenti, finiamola con le pantomime. Perché lo so che anche voi genitori-perfetti-di-bimbi-perfetti certe volte avete i maroni pieni.

Non potremmo semplicemente condividere i dolori per riderne insieme? Perché dovete a tutti i costi dissimulare le difficoltà? Far finta che sia tutto rose e fiori?

Io lo so.

Sono balle.

Perché siamo tutti sulla stessa barca.

La signora Sbuffo

La signora Sbuffo ha tre figli.

Uno grande che va alla scuola alimentare. Uno piccolo come il Bubino. E una media che si chiama Sara ed è nella mia classe.

E’ simpatica ed ha la lingua lunga. Per questo ci vado ovviamente molto d’accordo.

Non so cosa abbia fatto di male questa povera Sara. Probabilmente a casa si trasforma in un’insopportabile vipera. Non mi è dato saperlo.

In ogni caso quando la signora Sbuffo la viene a prendere a scuola, le regala, nell’ordine:

  1. muso lungo fino all’ombelico (forse nessuno le ha mai insegnato a sorridere?!?)
  2. sospiri prolungati come se la costringessero a mangiare le zucchine
  3. una serie di battute che per lo più io non capisco
  4. una serie infinita di “sbrigati” “muoviti” “fai presto” “avanti”.

Ieri abbiamo fatto una gita in una fattoria bellissima. Ci siamo tanto divertiti. Ci avevano diviso in gruppi e ogni gruppo aveva un cartellino con un animale.

Io avevo un coniglietto.

Sara aveva un’oca.

Quando Sara ha mostrato il suo cartellino alla signora Sbuffo, lei le ha detto: “Ah, beh, giusto. Proprio un’oca ci voleva per te.”

Non sono sicura che essere paragonati a un’oca sia una bella cosa.

In ogni caso io preferirei una tigre.

Le grandi domande della vita

I perché che non smetterò mai di pormi (questo post è liberamente ispirato a quello di Paola, che trovate qui).

  • Perché quando carico i Bubini in macchina e finalmente mi siedo alla guida, non trovo più le chiavi, continuo a ripetermi “eppure le portiere le ho aperte” e dopo dieci minuti di ricerca furiosa mi accorgo che ci sono seduta sopra?
  • Perché quando porto via le salviettine umidificate da brava mamma previdente, al momento del bisogno mi accorgo che il contenitore è vuoto?
  • Perché quando mi lamento del fatto che ho perso diottrie, alla fine mi rendo conto che dovevo solo pulire gli occhiali dalle innumerevoli ditate del Bubino?
  • Perché ho le gambe costantemente piene di lividi di cui non ricordo assolutamente l’origine?
  • Perché ogni volta che mi concedo una serata libera, immancabilmente vengo punita con sfighe di vario genere, leggi influenze-dissenterie-notti in bianco? (questa è altresì chiamata la maledizione di montezuma del genitore, di cui disquisirò presto su questi schermi)
  • Perché all’interno della mia borsa il cellulare e le chiavi hanno vita propria e si scambiano di posto per ridere alle mie spalle, costringendomi a rovesciare l’intero contenuto per terra prima di riuscire a tirarli fuori?
  • Perché quando siamo al parco e qualche mamma tira fuori da mangiare per i sui figli, i Bubini ci si fiondano davanti con pietosi occhi affamati come se li avessi tenuti a pane e acqua per giorni?
  • Perché quando i Bubini si addormentano entrambi in macchina, il trucco di portarli a letto dormienti pregustando la serata relax non mi riesce mai, ma dico MAI?
  • Perché quando carico la spesa nel portabagagli e vedo accendersi la spia, mi ripeto “ma sì, è difettosa” e poi mi accorgo di aver guidato per chilometri con il portellone completamente aperto?
  • Perché quando prendo il caffé in ufficio cinque volte su dieci me lo dimentico e alla fine lo bevo freddo, tre volte su dieci me lo dimentico e lo urto con il gomito rovesciandone il contenuto tra le carte e le fessure della tastiera, una volta su dieci me lo dimentico direttamente sulla macchinetta e il collega dopo fa calare il suo bicchiere sul mio spargendone tutto il contenuto per terra?

Mi auguro che tra i miei lettori ci sia qualcun’altro che queste domande se le pone.

Quindi, se volete, continuate pure.

Anniversario, un anno dopo

Visto come è andata l’anno scorso, sono destinata a passare degli anniversari – diciamo – memorabili.

Eccovi il racconto del nostro quarto anniversario di matrimonio.

Sola a casa. Il Papais fa tardi stasera. Rientro dal parco alle 18. In tempo utile per fare un bagnetto ai Bubini e preparare la cena in discreta tranquillità. Avverto quella rara e piacevole sensazione di organizzazione e di efficienza svizzera, mentre mi godo le loro risate e i loro spruzzi e preparo i pigiamini puliti.

Ma è destinata a durare poco.

Mentre li asciugo mi accorgo di aver dimenticato il pannolino per il Bubino.

Esco dal bagno con lui in braccio e mi chiudo la porta alle spalle, perché la Bubi non senta freddo.

Cerco di rientrare.

Non si apre.

Si è chiusa.

Dall’interno.

Con la Bubi dentro.

Sento il sangue salire alle tempie.

“Mamma! Mamma! MAMMMMAAA!”

“Bubi, stai tranquilla. Ora la mamma ti apre”.

“SONO CHIUSA QUIIIIIIIIIII, BUAAAAAAAAAAA!”

Appoggio il Bubino per terra.

Si piscia sotto due volte. Scivola sulla pozzanghera. Piange anche lui.

Bubi: “UAAAAAAUUAAAAA”

Bubino: “UAAAAUUAUUAAA”

La testa mi pulsa.

Mi sforzo di pensare lucidamente.

La porta è scorrevole. Ha un kaiser di lucchetto strambo che la Bubi non è capace di girare.

Chiamo il Papais.

Non risponde.

“Bubi, la mamma è forte, vero? La mamma risolve tutti i problemi, vero? La mamma ti tira fuori.”

Continuo a ripeterle così. Certa e sicura che lo sto facendo per tranquillizzare più me stessa che lei.

Penso a scenari improbabili con pompieri, scale mobili, mamme acrobate che si calano dal terrazzo.

Poi tiro fuori un molto più banale cacciavite.

Il Bubino continua a piangere.

La Bubi continua a piangere.

Smonto l’intero pezzo della serratura. Non basta. Faccio leva con il cacciavite. Sradico fisicamente il pezzo che blocca la porta. Che finalmente si apre.

La Bubi è rannicchiata in un angolo. Mezza nuda e ancora bagnata. Tremante di freddo e di paura.

L’abbraccio fortissimo e le dico: “La mamma ce l’ha fatta.”

Più tardi mentre mangiamo sereni noi tre insieme.

E dopo cena, mentre pulisco i resti di una fugace cacarella (povera Bubi, deve aver preso un freddo cane, seduta su quelle piastrelle gelide).

E ancora più tardi, mentre torna a casa il Papais con il mazzo di fiori d’ordinanza. E mi fa notare che sarebbe bastata una moneta per girare la serratura dall’esterno. Senza sradicarla.

E mentre avverto, fortissima, quell’inequivocabile sensazione di imbecillità.

In mezzo a tutto questo penso che per i Bubini potrei davvero fare qualsiasi cosa. Se fossero in pericolo, potrei scalare montagne. Correre per chilometri. Sfidare il freddo, la fame, la sete. Giuro. Quella porta l’avrei distrutta a calci se non fossi riuscita ad aprirla col cacciavite.

Pensate quanto scema mi sarei sentita allora.

Ai confini della realtà

Lei. Sempre coordinata. Borsetta-scarpe-occhiali-vestito. Fresca di parrucchiere. Trendy e sexy. Anche quando fa le pulizie di casa. La chiameremo la Fèscion. Genera frequentemente una certa frustrazione in Mamma Giulia. Che notoriamente si veste arraffando le prime cose che le capitano a tiro con l’unica accortezza che non abbiano la patacca di moccolo sulla spalla. Mamma Giulia, che stamattina si è abbinata maglia, scarpe e calze con un paio di pantaloni, convinta che fossero neri, e si è accorta solo a chilometri da casa che i suddetti pantaloni erano blu. E ora, in ufficio, cerca di dissimularli malamente sotto la scrivania.

Lui. Il figlio della Fèscion. Si aggira per il cortile del nostro condominio armato fino ai denti. A Carnevale si è vestito da paracadutista in missione ONU, completo di cinturone con bombe a mano intelligenti, fucile a canne mozze, un mezza dozzina di beretta automatiche. A cinque anni e mezzo parla leggermente meglio del Bubino. Trascorre ore da solo in cortile con le sue armi. Per rivolgersi a lui la Fèscion non parla, sbraita. Lo chiameremo l’Armato Trascurato.

Scena Uno.

Mamma Giulia esce dalla macchina come al solito carica come un mulo da trincea, reggendo il Bubino con un braccio e con l’altro una serie di merci appallottolate, tra le quali si riconoscono a malapena la borsa, il cestino del pranzo, il cappotto, lo zainetto della Bubi, i lenzuolini di scuola da lavare.

La Bubi: “Mi scappa la cacca”.

Mentre accelero l’andatura, ci approccia l’Armato Trascurato: “Può Bubi giocae qua?”

Mamma Giulia: “Guarda, tesoro, devo farle fare merenda al volo e poi andiamo a far la spesa”.

Lui: “Mmmm”.

Mamma Giulia, nota masochista dal cuore tenero: “Vuoi venire su a fare merenda da noi?”

Lui: “Chiedo mamma”.

La Fèscion non esce nemmeno. Forse è occupata. Solo dopo diverse ore presa a intrattenere l’Armato, evitando che il Bubino fosse impallinato ogni volta che gli distruggeva una costruzione, e ovviamente dimenticando che doveva fare la spesa, Mamma Giulia scopre che:

  1. la Fèscion era andata tranquillamente a giocare a tennis;
  2. a casa c’era pure suo marito;
  3. nessuno dei due si era minimamente preoccupato che una sfigata da sola con tre bambini appena uscita dal lavoro magari fosse un po’ stanchina.

Scena Due.

Ore 19.15.

Suona il campanello. La Fèscion non sale nemmeno. Mi urla dalle scale. “L’Armato vuole vedere la Bubi. Solo dieci minuti, eh? Ha già cenato, sai, non ti preoccupare!”.

L’Armato si fionda sul tappeto: “Io fae fattoia co Lego”.

Mamma Giulia trattiene a malapena la Bubi, che stava finendo di cenare: “Tu non ti muovi. Finisci questi bocconi e dopo vai a giocare”.

Il Bubino scalpita, vuole scendere anche lui.

Mamma Giulia abbandona la sua cena e si siede sul tappeto. Blaterando frasi sconnesse sul giocare insieme. Salvando più volte il Bubino dal linciaggio. Proteggendo la Bubi dalle ire dell’Armato, infuriato perché lei ha osato toccare il suo elicottero da combattimento.

Il Papais salva la situazione con un bel DVD dei Barbapapà.

“Volete qualcosa da mangiare, bambini? Un po’ di frutta? Uno yogurt?”

L’Armato: “Io solo kindel”.

La Bubi: “Che cosa sono i kindel?”

“Niente, niente, tesoro.”

L’Armato Trascurato mi stringe il cuore. Comincia a guardare fuori dalla finestra. “Potate me casa?”

“Ti porto a casa, tesoro?”

“No, no. Pima finise catone”.

Visto che i dieci minuti sono passati da un pezzo Mamma Giulia e il Papais si lanciano in ipotesi improbabili di cataclismi nucleari, o su molto più plausibili inciuci con il maestro di tennis. La Fèscion si presenta al campanello alle 20.25.

“Mi pare abbastanza, no? Dai, Armato, vieni a casa. Hai messo a posto i giochi? La sai la regola, eh? Quello che hai tirato fuori lo rimetti a posto.”

“Non ti preoccupare, Armato, i giochi erano già fuori da prima.”

“Beh, dì grazie a Mamma Giulia e ciao ai Bubini.”

“Tzao.”

Mamma Giulia e il Papais, attoniti, passano il resto della serata a riflettere sul perché in questo momento siano loro a sentirsi in imbarazzo e non la Fèscion.