Il guerriero

Quando sono rimasta incinta la prima volta, un girino microscopico ha catalizzato in un istante l’amore più grande che io potessi mai immaginare. La Bubi mi ha stregato talmente, che temevo non restasse più niente per un secondogenito. E invece ho scoperto che l’amore è illimitato. Il Bubino non ha dovuto farsi spazio. L’amore si è semplicemente moltiplicato, senza grossi sforzi. Una specie di miracolo evangelico.

Pensavo fosse tutto legato ai legami atavici, una questione di genetica. E’ un rapporto assolutamente carnale, quasi animalesco, che ho costruito nel tempo. Iniziando ad allattarli al seno, a baciarli, accarezzarli e annusarli come una gatta con i suoi cuccioli, pronta a ringhiare per proteggerli.

 

Pensavo fosse genetica.

 

Ma poi è arrivato lui. Un piccolo guerriero dagli occhi neri.

Con la sua andatura barcollante, incerta sulle gambette magre.

Con i suoi riccioli perfetti, che sembrano disegnati a mano e solo se ne tiri uno ti accorgi di quanto sono lunghi.

Con la sua pelle levigata, le sue ciglia girate all’insù, il suo sguardo curioso ed allegro.

E con la sua storia. Piena di dignità. E di forza. E di fegato.

Non è nemmeno figlio mio, io sono solo la zia, la zia zitella innamorata. Mi sono sentita le lacrime salire dal petto fino agli occhi. Mi sono ritrovata commossa, affascinata, senza contegno. Mi sono scoperta ad annusarlo sul collo, a scoprire quei profumini che hanno anche i miei Bubini. Una mamma gatta, anche con lui.

No, la genetica non c’entra.

 

Figurarsi se c’entra il colore della pelle.

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Di ritorno

Ieri sera. Ore 22.00

Entro di soppiatto in camera. Scorgo il Papais e la Bubi insieme del lettone. Gli occhi chiusi. Mi avvicino per lasciarle un piccolo bacio sulla fronte. Un guizzo nello sguardo e un sorriso.

Mi stava aspettando. Sveglia.

Per raccontarmi come una macchinetta tutto quello che è successo in questi quattro giorni che sono stata via.

Per accarezzarmi il braccio.

Per baciarmi all’infinito.

Per fissarmi con quell’azzurro felice negli occhi che mi fa salire un groppo alla gola.

Ore 4.00

Il Bubino chiama piano: “Papà”.

Mi scapicollo in cameretta e lui è seduto sul lettino, buono buono.

“Bubino, sono io”.

Si alza di scatto. Mi butta le braccine al collo.

Mi stringe forte.

Si è reso conto anche lui che sono tornata.

Passiamo le successive due ore abbracciati. Dormicchiando tra un bacio e l’altro.

Sono stati bravissimi in questi quattro giorni.

Più bravi che mai.

E’ davvero rilassante scoprire che se la cavano alla grande anche senza di me.

Ma se al rientro mi avessero accolto come se niente fosse sarebbe stata dura.

Sono sempre la mamma, eh?

Ti rendi conto

 Ti rendi conto che sono cresciuti quando si intrattengono tra di loro senza bisogno di te. Anzi, a volte sembra quasi che la tua presenza li infastidisca.

“Vai via, mamma, sto leggendo io al Bubino”.

“Vai via, mamma, ci siamo già messi d’accordo”.

 Ti rendi conto che sono cresciuti quando hanno il loro giro di amici con cui condividono routine e segreti. Un mondo da cui tu sei esclusa. Si salutano tra loro come navigati adolescenti. Ridacchiano e si sussurrano frasi all’orecchio. Si scambiano commenti sui vestiti.

L’altro giorno ho sentito il Bubino mostrare tutto fiero la maglietta al suo amico Mathias e dire: “Hai visto che bello che sono oggi?”.

 Ti rendi conto che sono cresciuti quando se ne stanno dalla vicina per oltre un’ora senza che tu riceva alcun segnale di allarme.

Era solo un anno fa che la Bubi si è fatta accompagnare fino al supermercato in lacrime, perché dalla vicina proprio non ci voleva restare. A quel tempo la vicina era la Féscion e suo figlio era l’Armato. Diciamo che aveva i suoi buoni motivi. Questa volta c’è Camilla, vulcanica e coinvolgente, e la sua mamma Anna, 40 kg di energia pura. Farsi allegramente i cavoli propri mentre i figli giocano sereni al piano di sotto davvero non ha prezzo.

 Ti rendi conto che sono cresciuti quando finiscono per assomigliare agli adulti. Per le cose peggiori. Tipo la fiatella del mattino. O la flatulenza sotto le coperte.

 Ti rendi conto che sono cresciuti quando ti sembra finalmente di avere l’energia e la forza di rimetterti in gioco. Anche fuori dalla famiglia.

E questa è cosa buona e giusta.

La difficile arte dello sdrammatizzo

“Oggi la Vale si è arrabbiata.”

“Perché?”

“L’avevo spinta. Ma per sbaglio, eh? Gliel’ho detto che non avevo fatto apposta, ma lei continuava a piangere.”

“E allora?”

“Allora le ho raccontato dei piedi del Papais che puzzano. E le è passata.”

Risolvere i conflitti facendoci sopra una risata. Ottima tecnica. La Bubi la applica anche con il Bubino, a volte.

Se lui se la prende per una cosa, si mette a saltellare davanti a lui come un folletto facendo facce buffe. Impossibile resistere. E infatti il Bubino ride e tutto finisce lì.

Peccato che abbiamo dei pessimi esempi di barzellettieri in politica. Perché forse lo sdrammatizzo sarebbe un ottimo metodo anche per gli adulti.

Da grandi

“Da grande io sarò veterinaria.”

“Certo, Bubi, lo dici sempre.”

“Quando il dottore non c’è, ci sarò io a curare gli animali. Però quando c’è, me ne starò a casa con la mia bambina.”

“Ah, dai. Avrai una bambina. E come si chiamerà?”

“Margherita. E io mi chiamerò Stella.”

“Avrai anche un bambino?”

“Certo. Filippo.”

“Bei nomi. E tu, Bubino? Cosa vuoi fare da grande?”

“Il Grande.”

Non avrà la logorrea di sua sorella, ma quanto a idee chiare il Bubino non ha rivali.

Scoperta

 Tre settimane fa.

“Giulia, sei a pezzi. Hai l’umore più nero delle vendite a Cortina, ti incazzi per ogni piuma che cade, non hai mai tempo per te, la tua igiene personale fa schifo, non parliamo della depilatio, son giorni che non riusciamo nemmeno a parlare insieme. Quindi ho preso una decisione. Da oggi faremo una sera io e una sera tu. Oggi tocca a me. Metto a letto io i Bubini.”

La prime due sere ho fatto finta di andarmene di casa. Mi sono nascosta in lavanderia per non farmi sentire. Al buio. E anche piuttosto al freddo.

Dopo le reazioni inconsulte del Papais e del mio intestino (non contemporaneamente), ho deciso che era ora di finirla con i sotterfugi. La Bubi doveva accettare la cosa e basta. [n.d.a. Per il Bubino il problema non si è mai posto. Lui si mette nel suo letto e dorme, incurante di chi ce lo abbia messo].

La prima volta la Bubi ha piantato un dramma che neanche Eleonora Duse. Io ho tenuto duro. Solo perché il Papais mi ha minacciato di una morte lunga e dolorosa se avessi ceduto. La seconda sera ha frignato senza urlare e mi ha chiesto di rimanere con lei solo finché finiva il latte. E poi basta.

Ora la routine è diventata questa. Una sera il papà, una sera la mamma. Liscio come l’olio.

Tre settimane fa.

“Giulia, Bubino oggi ha chiesto di restare senza pannolino. Domani ricordati di portare al nido tre paia di mutandine e tre paia di pantaloni di ricambio.”

“Cosa? Come? Dove? Ma non c’è scritto in tutti i libri che lo spannolinamento si fa in estate? Ma io non sono pronta, non ho comprato niente, a casa ho solo body, non ho canottiere, non ho magliette, e non posso mica mettergli gli slip di sua sorella, quelli con i Barbapapà sono anche carini, ma quelli di Bambi, no, eh? Che poi io sono per crescerli senza preconcetti maschio/femmina, ma questo mi sembra troppo…”

“Giulia, stai tranquilla. Possiamo cominciare anche lunedì.”

Mi aspettavo una lunga maratona tra pozzanghere e rifiuti (vedi qualche mio post di ormai 2 anni orsono qui e qui).

E invece il Bubino sta ormai asciutto tutta la mattina. E gran parte del pomeriggio. E -udite udite-anche di notte. Con la cacca siamo ancora in rodaggio. Quel canederlo marrone gli suscita ancora una certa curiosità ed è più bello ammirarlo che farlo tuffare nel water. In ogni caso, vedermi quel nano girare per casa con le mutandine nere e la maglietta grigia, gli stessi colori del Papais, mi fa saltare il cuore.

E sono rimasta elettrizzata da questa scoperta.

I problemi riescono a risolversi senza che io faccia fondamentalmente un cazzo.

Sorella maggiore

 Quando accompagni il Bubino al nido, lo saluti abbracciandolo forte.

“Lo so che non è facile, Bubino, però adesso vai. Ti aspetta la maestra.”

Lui ti guarda.

Adorante. Fiducioso.

Ti risponde quieto: “Sì, Bubi.”

E va.

Tra lo sguardo incredulo della maestra Patrizia e quello compiaciuto del Papais.

Quando il Bubino è ammalato, riusciamo a fargli prendere le medicine solo con il tuo indispensabile aiuto.

“Mmmmm, che buono, mamma, dallo a me lo sciroppo”, menti tu, convincente.

“Noooo, è mio, è mio!”, scatta il Bubino all’istante.

Stesso giochino quando il Bubino pianta il canonico capriccio perché non vuole vestirsi.

“Bella quella maglietta, me la metto io”, parti tu, senza che nessuno te lo chieda.

Sei di una persuasione micidiale.

Risultato garantito in cinque secondi netti.

L’altro giorno, al parco. Approfittiamo del primo tepore dopo mesi per due scivolate.

Peccato che la cima del castello sia presidiata da un’indisponente treenne, che approccia il Bubino con un: “Tu sei piccolo, non puoi salire”.

L’incauta non ha fatto i conti te, Bubi.

“Bubino, vieni qua, gioco io con te”, lo rassicuri tu.

E poi subito, feroce, rivolta all’asociale reginetta del castello: “Lo scivolo è di tutti. Guarda che chiamo subito il mio papà e vedrai cosa ti fa.”

Il Bubino non conosce ancora i colori. Fa una gran confusione soprattutto tra verde e blu. Ma quello che per me resta un mistero è che quando glieli chiedi tu, sgranando le perline della tua collana di cuori, non ne sbaglia uno.

Forse il tuo “bravo” ha un altro valore per lui rispetto al nostro.

Eravamo in macchina ieri sera.

Solo io e te, direzione nido.

“Mamma, ti devo dire una cosa molto seria.”

“Dimmi, amore.”

Quando parti così ci si può aspettare di tutto.

“E’ bello essere in due, sai?”

“In che senso?”

“In due piccoli. Due fratelli in famiglia. E’ bello avere un fratello.”

La curva della mia autostima ha subito una vertiginosa e istantanea impennata. Abbiamo fatto un bel lavoro. Proprio un bel lavoro.

Solo che dopo hai proseguito.

“Sarebbe bello anche in tre, che ne dici?”

C’è tempo

Sei appena entrato nei “terrible two”.

C’è ancora tempo per il capriccio ribelle, i bracci di forza, le camicie di forza.

C’è tempo, Bubino.

Tu, che i due anni li hai compiuti appena ieri. E hai festeggiato con la camicia a righe come un ometto grande.

Tu, che ti fidi del mondo e salti in braccio a chiunque ti allarghi le braccia (tanto poi ci pensa la Bubi a riportarti all’ordine, che se le toccano suo fratello con lei c’è poco da scherzare).

Tu, che all’asilo sei soprannominato “orsetto”, perché gli altri bambini quando hanno bisogno di coccole frignano. Invece tu ti avvicini zitto zitto, ti siedi in braccio girando il culetto, ti abbandoni molle molle con la testina appoggiata alla spalla della maestra. A quel punto diventa matematico farti una carezza.

Tu, che hai appetito perfino con la febbre a quaranta. Che mangi da solo da più di un anno. Che adori i piselli e di diverti a scovare i fagioloni nella zuppa del nonno. Nel tabellone dell’asilo trovo sempre una fila di “sì”: spazzolata frutta del mattino, spazzolati primo e secondo, spazzolata merenda. Qualche volta, caso unico di tutta la scuola, le maestre scrivono “tanto”. L’aumento della retta arriverà, prima o poi.

Tu, che canti “il pulcino ballerino” e “coniglietto zinzunzan” con quella vocetta dolce dei bambini piccoli. E con la stessa vocetta annunci “scoresa!”. Ed è impossibile non mangiarti di baci. Nonostante la puzza.

Tu, che se ti svegli al mattino e senti che la Bubi è già in piedi, dici “un momento”. Corri ad abbracciarla e poi torni nel lettone a prenderti le coccole.

Tu, che stringi i muscoletti per far sentire quanto sei forte. Stiamo cercando disperatamente di farti capire che non è divertente massacrare l’altrui guancia con le unghie o con i denti. Il problema è che subito dopo tu abbracci il malcapitato, gli molli un bacio umidiccio sussurrando “’cusa”. E il malcapitato in questione, pur sanguinante, non può far altro che crollare.

Tu, che sei cresciuto senza drammi e senza problemi. Un bambino da manuale.

Averti come primogenito ci avrebbe largamente ingannati sulla natura bambinesca.

Ma visto che sei nato per secondo, ora siamo preparati e corazzati.

Ma c’è ancora tempo, Bubino.

Credimi.

Ghe la femo

Quando si svegliano così, sonnacchiosi ma non lamentosi.

E la Bubi mi racconta tutta gasata del suo sogno “stranissimo”.

In cui un bambino si ficcava la lingua nel naso e non riusciva più a toglierla. E allora arrivavano due topolini per aiutarlo. E poi si ficcava la testa nel collo. E i topolini lo aiutavano anche lì. E poi gli cadevano gli occhi e si sporcavano. E i topolini glieli lavavano e glieli rimettevano a posto. (E’ un po’ splatter mia figlia).

“Ma tu dov’eri?”

“Ero dentro il sogno, no? Ero lì che lo guardavo e ridevo. Che poi, mamma, la cosa bella dei sogni è che se ti svegli un momento, poi ti riaddormenti e ricomincia di nuovo.”

E il Bubino che l’ascolta senza perdere una parola. Ridacchiando anche lui sotto i baffi sporchi di latte. Rigorosamente freddo di frigo, perché a lui piace così. E poi si divora la sua focaccia, non prima però di averla minuziosamente riempita di buchi con il ditino.

“Fasso gli occhietti, mamma!”

E poi via, chi a scuola, chi al nido, chi al lavoro.

Non ci vedremo per un bel po’ di ore.

Ma è bello ritrovarsi a casa la sera.

Accendiamo le luci dell’albero e poi ci ficchiamo un po’ sotto le coperte a raccontare barzellette di cacca e pipì. E anche di muco, perché al Bubino la sola parola “muco” lo fa sganasciare.

E poi giochiamo ai gattini e io sono la mamma gatta o la padroncina che li cura. Che poi il gioco è solo un modo per farsi fare ancora più coccole. Perché quando fanno “miao miao” camminando a quattro zampe me li mangerei.

Oppure facciamo i vari passi su e giù per il salotto. Quello della rana, quello dell’elefante, quello della giraffa, quello del coniglio. La Bubi agilissima. Il Bubino che le arranca dietro ridendo come un matto.

Più tardi, quando è ora di andare di sopra, prima che scoppino le crisi varie ed eventuali. Scendo giù a preparare il latte e risalgo di soppiatto. Perché la Bubi sta leggendo al Bubino. E’ bravissima, non sbaglia una riga. E poi fa ripetere le paroline al Bubino. E lo incita, gli dice “bravo, Bubino!”.

Da piangere.

In momenti come questi credo di potercela fare davvero.

E perché non dovrei, scusa?!?

Se crisi deve essere, almeno che sia seria

Nota per i lettori: il racconto che segue è tratto dal resoconto in differita che mi ha fatto il Papais. Mamma Giulia ha prestato la sua penna, ma per il resto è tutta farina papesca.

La mattina si preannuncia difficile.

Il Bubino è stanco, scoglionato, stufo. Ma più di qualsiasi cosa oggi non vuole andare al nido.

“Non vollio popio più”.

Nella sceneggiata napoletana sono inclusi:

a) il sacco-di-patate (schiena inarcata indietro e braccia in aria, farsi prendere in braccio diventa un’impresa epica)

b) il serpentello-sgusciante (vi sfido a riuscire ad infilargli una manica o una scarpa)

c) la sirena-dei-pompieri-con-idrante

d) l’inappetente, con incluso spargimento di latte sul pavimento).

Inutilmente la Bubi cerca di distrarlo (“Ti aiuto io, Papais”).

Inutilmente la mamma cerca di distrarlo (“Lascia fare a me, Papais”).

In qualche modo riusciamo ad uscire di casa. Lui ovviamente digiuno. Ovviamente piangente.

Io continuo a ripetergli la solita cantilena: “Vedrai che bello in asilo, c’è la Patrizia, c’è Chicco, ci sono i Lego, la sabbia, la pista delle macchinine”.

Ma evidentemente oggi non è proprio giornata.

Arrivati all’ingresso il Bubino continua ad indicare la porta e con insistenza a ripetere: “Lì, lì, lì”.

Mi prende la mano e cerca di trascinarmi, con tutta la forza dei suoi dodici chili.

Provo a togliergli il giubbotto ed è la crisi.

Piange inconsolabile. Un pianto dirotto che avrebbe disintegrato qualsiasi cuore.

Io mantengo la calma.

Continuo a parlargli. Piano. Lento. Convincente.

Accanto a me il via vai delle mamme.

“Giornata dura oggi, eh?”

“Giornata dura oggi, eh?”

“Giornata dura oggi, eh?”

Ce ne fosse una che dica qualcosa di diverso. E tutte con quel sorrisino idiota sulla faccia. Vorrebbero sembrare comprensive ed empatiche. Ma si vede benissimo che se ne vanno via gongolanti perché “il loro” queste scene non le fa. Per oggi, brutte stronze. Solo per oggi.

Il Bubino si è quasi calmato. Singhiozza debolmente. Sembra quasi rassegnato.

Quando arriva lei.

Miss Ioloso.

La maestrina laureata.

La prima della classe.

Si avvicina al Bubino, silenzioso ma quasi consolato.

Con pietosi occhi a triangolo gli dice: “Non vuoi proprio venire oggi in asilo, vero?”

“Nooooooooooooooooooooo”, gli urla dietro lui azionando di nuovo la sirena.

“Ecco, finalmente abbiamo capito il problema.”

Finalmente?!?!

Ma pezzo di rimbambita, è tutta la mattina che abbiamo capito il problema, non avevo certo bisogno di te e delle tue perle di scienza.

Il mio lavoro di convincimento è andato allegramente a remengo.

Il Bubino piange di nuovo. A fontana. A catinelle. A cascata.

Mentre la mia mente vaga su raffinate tecniche di tortura da riservare alle mamme fintamente empatiche e alle maestre laureate, Miss Ioloso continua con il suo intervento non richiesto.

“Eh, il Bubino in effetti è quello che fa più fatica di tutti.”

Non riesco più a trattenermi.

“Scusi, ma, non è quello che ci ha detto Patrizia, la sua maestra. Lei dice che ha qualche momento di nostalgia, ma che tutto sommato il bambino è sereno.”

“Eh, è quello che ho detto io.”

“Beh, direi proprio di no”.

Lei. Faccetta da saputella ripresa.

“Mi scusi, ma permetterà che in un momento del genere le parole che si usano siano piuttosto importanti, non crede?”

Se ne va. Meglio così.

Intanto i compagni del Bubino hanno incollato i loro nasetti alla porta a vetri. Fanno facce buffe e il Bubino li osserva. Quasi divertito. Adorabili.

Ma ecco che interviene Miss Ioloso. Allontana i bambini. Li porta via.

Mentre rifletto ancora più seriamente sulle tecniche di tortura di cui sopra, arriva Patrizia. Una nuvola di serenità e senso pratico.

“Bubino, se non vuoi levare il giubbotto adesso lo leveremo dopo. Non importa. E tieniti anche le scarpe. Non fa niente.”

Lo prende in braccio e mi fa cenno di andare.

Lo vedo piangere ancora.

So che è solo un momento. Che passerà.

E so che è in buone mani.

Almeno lui.