Ghe la femo

Quando si svegliano così, sonnacchiosi ma non lamentosi.

E la Bubi mi racconta tutta gasata del suo sogno “stranissimo”.

In cui un bambino si ficcava la lingua nel naso e non riusciva più a toglierla. E allora arrivavano due topolini per aiutarlo. E poi si ficcava la testa nel collo. E i topolini lo aiutavano anche lì. E poi gli cadevano gli occhi e si sporcavano. E i topolini glieli lavavano e glieli rimettevano a posto. (E’ un po’ splatter mia figlia).

“Ma tu dov’eri?”

“Ero dentro il sogno, no? Ero lì che lo guardavo e ridevo. Che poi, mamma, la cosa bella dei sogni è che se ti svegli un momento, poi ti riaddormenti e ricomincia di nuovo.”

E il Bubino che l’ascolta senza perdere una parola. Ridacchiando anche lui sotto i baffi sporchi di latte. Rigorosamente freddo di frigo, perché a lui piace così. E poi si divora la sua focaccia, non prima però di averla minuziosamente riempita di buchi con il ditino.

“Fasso gli occhietti, mamma!”

E poi via, chi a scuola, chi al nido, chi al lavoro.

Non ci vedremo per un bel po’ di ore.

Ma è bello ritrovarsi a casa la sera.

Accendiamo le luci dell’albero e poi ci ficchiamo un po’ sotto le coperte a raccontare barzellette di cacca e pipì. E anche di muco, perché al Bubino la sola parola “muco” lo fa sganasciare.

E poi giochiamo ai gattini e io sono la mamma gatta o la padroncina che li cura. Che poi il gioco è solo un modo per farsi fare ancora più coccole. Perché quando fanno “miao miao” camminando a quattro zampe me li mangerei.

Oppure facciamo i vari passi su e giù per il salotto. Quello della rana, quello dell’elefante, quello della giraffa, quello del coniglio. La Bubi agilissima. Il Bubino che le arranca dietro ridendo come un matto.

Più tardi, quando è ora di andare di sopra, prima che scoppino le crisi varie ed eventuali. Scendo giù a preparare il latte e risalgo di soppiatto. Perché la Bubi sta leggendo al Bubino. E’ bravissima, non sbaglia una riga. E poi fa ripetere le paroline al Bubino. E lo incita, gli dice “bravo, Bubino!”.

Da piangere.

In momenti come questi credo di potercela fare davvero.

E perché non dovrei, scusa?!?

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Di abitudini e romanticismi

Il problema è che a certe cose ci si disabitua molto presto.

Tipo la domenica sera a combattere con termometri, tachipirina e broncodilatatori. Con la testa che vaga alla settimana che deve ancora cominciare, ai permessi che mi sono già presa per l’inserimento, alla montagna di lavoro che resterà là, immota, ad attendere il mio ritorno come una belva acquattata nel cespuglio, che presto salterà sulla sua preda. Era lo scenario abituale un paio di anni fa. Grazie alla Bubi, alla sua fragilissima dotazione di anticorpi e al covo mefitico che era il suo asilo nido.

Non c’ero più abituata.

E infatti ieri sera ho mollato di brutto. Ho chiesto aiuto al Papais per dare la medicina al Bubino. Che scalpitava e protestava (“Non la vollio più quela, non sevve”).

Che non aveva nessuna intenzione di addormentarsi. Mentre ero di là con la Bubi, l’ho sentito tirare calci alla testiera del letto, cantare Winnie the Pooh e chiedere una storia. Ho sentito il Papais, che gli chiedeva di mettere giù la testa, prima con calma, poi con meno calma.

Poi improvvisamente non ho sentito più niente. Sono svenuta sulla sedia.

Mi sono svegliata intorno a mezzanotte. In bocca un topo morto (c’era kebab per cena, non dico altro). Gli occhi iniettati di sangue. In testa una serie di pensieri confusi, primo tra i quali a che ora puntare la sveglia domattina. Sei o sei e mezza. Visto che avevo quei soliti trecentomiliardi di cose che avrei dovuto fare invece di crollare sulla sedia.

Scendo. E trovo, nell’ordine:

1) tavolo da pranzo sgombro

2) cucina perfettamente pulita

3) lavastoviglie in funzione

4) bucato già steso

Forse riderete.

Ma io queste cose le trovo terribilmente, irresistibilmente romantiche.

Cose che fanno curriculum

Dunque, no, la Bubi ha preso la Tachipirina alle 4.30 stamattina, quindi niet prima delle 10.30.

Febbre del Bubino? 38. Ok, a lui posso darla. Metà del peso in ml. Fanno 6 ml.

Antibiotico ore 13. Tra 8 ore il prossimo. Solo alla Bubi, però.

Aerosol con cortisonico? Alla Bubi. Aerosol con fisiologica? al Bubino. Tre volte al giorno. Che per due fanno sei.

C’è Nonna Santa. Ottimo. Lei fa l’aerosol. Io addormento prima uno poi l’altra.

Messi a letto. Bene.

Chi è che piange? La Bubi. Certo, tossisce e si sveglia ogni dieci minuti e mi vuole vicina.

E ora chi è che piange? Il Bubino. Poverino, zuppo di sudore.

E ora di chi è ‘sta tosse che sembra venir fuori dal più profondo delle caverne dei Neanderthal? Della Bubi. No, del Bubino. No, di tutti e due.

Sto riflettendo su come potrei valorizzare il mio CV.

Che ne dite di questo?

Spiccate doti di calcolo

Oppure:

Innata propensione alla customer satisfaction, specie di clienti con esigenze diversificate

E ancora:

Abilità nella gestione dei collaboratori e nel team building

And last but not least:

Ottima capacità di gestione delle emergenze, sia diurne che notturne

Mai senza nonni

Questo post partecipa al
blogstorming

E leggetevi anche l’intervista al Nonnoprof su genitoricrescono!


Sarò sincera. Ero un’orgogliosa indipendentista.

Una che ci teneva a mantenersi da sola. A farcela con le proprie forze. A chiedere aiuto ai miei solo se strettamentissimamente necessario.

Al liceo sfruttavo solo raramente il brillante latinista che albergava nel Nonnoprof. All’Università trovavo mille modi per sbarcare il lunario, anche se i miei non me l’avevano mai chiesto. Sono (soprav)vissuta all’estero con una borsa di studio da 800 euro, fiera di non dover domandare un centesimo a chicchessia.

Lo ero. Appunto.

Come per 25,000,000 altre cose, anche su questo punto la maternità mi ha trasformata. Adesso “Mai senza nonni” è addirittura una sezione del blog.

E’ stata colpa soprattutto della bismaternità, devo dire.

Quando avevo la Bubi soltanto, il mio spirito indipendentista se ne spuntava fuori prepotente in ogni occasione. Dalla gestione della casa. Che mi ostinavo a voler sbrigare da sola già a una settimana dal parto. Alla gestione della Bubi. Che volevo crescere insieme al Papais, con lui soltanto, senza intromissioni, senza aiuti.

I casi della vita mi hanno riportato sulla terra.

Da un lato c’era il nido, che costava una follia ed era un mefitico covo di virus. La Bubi in un anno se li è beccati tutti, compresa la broncopolmonite da micoplasma pneumonie. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la bronchiolite, passata al povero Bubino, che a neanche due mesi si è ritrovato in ospedale attaccato alla bombola dell’ossigeno.

Dall’altro lato c’era lui. Il Nonnoprof. Disponibile, attento, premuroso e gratuito.

Poveretto. All’inzio gli abbiamo stracciato i maroni a furia di raccomandazioni. Io, mia madre (Nonnasanta), mia suocera. Tutte noi, donne senza fede, brutalmente private del loro ruolo da un nonno maschio. Che per di più si è rivelato bravo. Molto più bravo di noi, per tanti aspetti.

Mio padre non è stata una scelta di comodo. E’ stata (ed è) una manna dal cielo.

Soprattutto ora con la bismaternità, quando i giochi ad incastro sono diventati paurosamente complicati. Poter contare sui miei mi dà respiro. E’ una grande fortuna. Ma siccome voglio essere sincera, vi dirò che questo non sempre mi rende felice. E’ il mio orgoglioso tarlo indipendentista che se ne rispunta fuori e lavora ai fianchi.

Mi ricordo i primi tempi della bismaternità. Il Bubino che poppava ogni due ore. La Bubi in piena crisi regressiva, che mi voleva sempre tutta per sé. Nonnoprof e Nonnasanta che si davano il turno per darmi una mano. In pratica non ero mai sola. Invece che rasserenarmi, però, tutto questo aiuto mi dava una grande insicurezza. Mi tempestavo di domande: ma ce la farò mai a gestire da sola i miei due figli? Se ce la fanno le altre perché io non ci riesco, stupido essere incapace? I miei genitori hanno cresciuto me e mio fratello senza aiuti, perché io senza di loro sono persa?

Quando mio padre se n’è accorto, ha cominciato a prendersi impegni. Apposta. Per diminuire gradatamente la sua presenza in casa. E’ stato mitico. Piano piano mi sono accorta che ce la facevo. Magari scleravo, ma ce la facevo. E la mia autostima ha ringraziato.

Nonnoprof e Nonnasanta ogni tanto mi fanno questa domanda: “Mi pare che non abbiamo fatto danni finora, vero?”

Mamma, papà, non ne avete fatti. Per niente. E ne farete sempre di meno se ogni tanto pensaste a voi stessi. Ma questo è compito mio. Perché lo so che voi non andreste neanche in vacanza, pur di badare ai Bubini. Non si può approfittare dei tossicodipendenti.

Routine e sfiga

Ridimensionare. Ecco la chiave.

Queste ultime settimane sono state un’estenuante battaglia contro le più varie amenità. Dalle più banali, come le notti magiche per colpa di un Patato insonne (saranno i denti? la sete? la sfiga?), a quelle intermedie (vedi scarlattina e influenze collettive), fino alle più serie, che ci hanno spedito direttamente in ospedale. Ne siamo usciti per tre sole ragioni.

Primo. Perché siamo rock (come dice sempre la Bubi) e “a noi non ci sconfigge nessuno”.

Secondo. Perché esiste il Nonnoprof, sempre disponibile e sempre in forma, nonostante gli straordinari pazzeschi a cui l’abbiamo costretto.

Terzo. Perché prima o poi tutto finisce. E si torna alla routine.

Ma ci sono casi in cui la malattia diventa la routine. Ne ho ascoltate tante di storie in questi giorni. I genitori alla fine ce la fanno. Perché devono farcela. Ma a che prezzo?

Un amico che ha un bimbo diabetico tempo fa mi ha girato queste righe. Ve le riporto integralmente, perché mi hanno davvero colpito.

Il giorno 14 novembre ho partecipato come volontaria, alla giornata mondiale del diabete e sono rimasta al quanto stupita di come le persone alle quali è stato rilevato un valore glicemico piuttosto alto, persone adulte, si consolassero con la battuta “ben ben el diabete el lo ga anca el Sindaco de Trent!” e non ho potuto fare a meno di associarli a quelli che sempre più spesso sento dire “bè al giorno d’oggi non è così grave come una volta”…

In parte forse queste persone hanno ragione, perché il diabete sappiamo che in sé non è una malattia invalidante e che in realtà permette, con un corretto stile di vita, di ottenere le stesse soddisfazioni di chi il diabete non lo ha e il nostro Sindaco con le sue affermazioni di questi giorni può esserne un esempio, ma forse queste persone non hanno mai avuto a che fare veramente con il diabete e pertanto non gli è molto chiaro quanto poco scontata sia la possibilità di condurre una vita “normale”, ma quanto impegno invece comporti arrivar ad ottenere questo risultato, pertanto io che non ho il diabete di tipo 1, né di tipo 2 ma sono una diabetica di “tipo 3”, (così sono definita quando dico di essere mamma di due bambine diabetiche, perché anche se la malattia non colpisce in prima persona i genitori, quando il diabete entra in casa, di diabete si ammala tutta la famiglia ed i genitori lo vivono quasi quanto i figli essendo le figure principali di riferimento per la gestione quotidiana), non ho potuto fare a meno di pensare a quei genitori che ogni giorno, nonostante tutti gli sforzi possibili anche da parte dei loro figlioli, si trovano a dover rincorrere valori di glicemia che cambiano nell’arco di poche ore senza alcun apparente motivo, sentendosi il più delle volte colpevoli per questo; a quei genitori che si trovano a dover misurare la glicemia anche più di 10 volte al giorno ad un bambino di un solo anno perché è difficile capire a quell’età se il suo pianto sia dovuto a capricci o magari ad un malessere portato da un’ipoglicemia; a quei genitori che devono riuscir a far accettare la cronicità di una malattia come il diabete e che nel momento in cui si sentono chiedere quando guarirò?, non hanno ancora una risposta da dare; a quei genitori che a volte si trovano a dover “implorare” la collaborazione degli insegnanti per poter star, non dico sereni, ma almeno un tantino tranquilli mentre i loro figli sono a scuola, ma che non sempre – purtroppo – trovano la collaborazione che si aspettano da un educatore; a quei genitori che si alzano in piena notte per controllare la glicemia del figlio temendo un’ipoglicemia notturna; a quei genitori che non sempre hanno un solo figlio a cui pensare ma che la malattia li porta ad avere un atteggiamento più attento nei confronti di quello malato sacrificando a volte le esigenze di quello sano; a quei genitori che con il cuore in gola e facendosi quasi violenza nell’ansia totale, salutano il figlio che parte per la gita – perché è giusto che faccia le stesse esperienze dei compagni –  e si sentono chiedere “ma in caso di ipoglicemia lui sa ben cosa fare vero?” (…certo, ma forse se lo volessero sapere anche gli altri, sarebbe molto più sicuro per tutti); a quei genitori che consolano le lacrime del figlio quando, tornando da una festa della scuola, della catechesi o della propria squadra, le giustifica dicendo che a lui non è stato dato un dolce ma gli è stato detto che lui sa bene il perché e quindi dovrebbe capire; a quei genitori che, dal momento dell’esordio, conoscendo quali possano essere le complicanze del diabete dopo un certo periodo di anni di malattia, si trovano a fare i conti pensando che già a 15 anni possano manifestarsi sui loro figli; a quei genitori che non trovano collaborazione nei parenti che non riescono a capire che il “ma dai per una volta” è diseducativo e non aiuta nessuno; a quei genitori che si sentono in colpa nell’essere “sani”…

Ecco credo sia giusto che tutte quelle persone e pure quelle che forse leggeranno queste righe, sappiano anche questo, che l’essere diabetico non è solo rinunciare alla cioccolata, alla marmellata e ai dolci, cosa tra l’altro che i bambini se educati in maniera corretta alla malattia, capiscono meglio e prima degli adulti, ma è un impegno molto più grande da vivere giorno dopo giorno per tutta la vita, anche se magari non sarà pesante come quella di un Sindaco, un impegno da mettere in quello zainetto con tutto l’occorrente che ai bambini con diabete viene insegnato, sin dal giorno dell’esordio, di portare sempre con loro e di non dimenticare mai!!

Sabrina Moser

Moccolandia

Nella provincia autonoma di Moccolandia si è aperta ufficialmente la stagione venatoria.

La caccia al moccolo è pratica assai diffusa non solo tra i gruppi genitoriali, ma anche tra la larga schiera dei sostituti (nonni, baby sitter, maestre) che rincorrono l’altrui prole nell’arduo tentativo di catturare la preda. Le specie interessate variano dal bianco, al giallo, al verdastro, fino all’ormai raro grigio cinerino, tipico dei tabagisti precoci o di chi soggiorna in aree particolarmente inquinate.

Le più comuni armi utilizzate sono i fazzoletti, che una volta usati tendono rapidamente a trasformarsi in oggetti di design, stazionando in mucchietti più o meno consistenti tra tavoli, mensole e piani d’appoggio. Per quanto i cacciatori se ne riforniscano in grandi quantità, la caratteristica principale dei fazzoletti è purtroppo la loro irreperibilità al momento del bisogno. Qui la fantasia del cacciatore ha la meglio. Si possono usare la manica della giacca, la tovaglia, il lenzuolo, o anche direttamente le dita, poi rapidamente spalmate sulla prima superficie disponibile, di qualunque genere essa sia.

La battuta di caccia è resa spesso difficoltosa dalla specie ospitante. Il lattante tende in genere a lappare gioiosamente il moccolo prima che si riesca a raggiungerlo. Il bambino più grande, notoriamente geloso delle sue manifestazioni corporee, moccoli compresi, a volte fugge con le prede tentando disperatamente di salvarle dal loro tragico destino.

Nota specie infestante, il moccolo tende a colpire più bambini nello stasso momento. Spesso e volentieri degenera in tosse, che diventa la piacevole e costante colonna sonora dell’intera stagione fredda.

Per maggiori informazioni consultare qui, qui oppure qui.